A scuola di diritti: "Mediterraneo comune"

progetti

una premessa

Questo elaborato è una tesi di laurea in Scienze della comunicazione. Si tratta un progetto sperimentale sui diritti fondamentali condivisi all’interno delle costituzioni dei paesi che si affacciano sul mar Mediterraneo, svolto all’interno del carcere Rocco D’Amato di Bologna. La ricerca è stata condotta nel 2014 da Maria Caterina Bombarda.

di Maria Caterina Bombarda

l’ascoltatrice di muri

C’era un tale che ascoltava le voci dei muri. Ma i muri, non sono muti? E non si dice forse, per indicare una cosa impossibile, “far parlare i muri”? Certo, i muri sono muti, ma la gente parla, e parecchio: così, piano piano, i muri si riempiono di parole, di frasi, di discorsi, che si accumulano per tutto il tempo della loro esistenza. (Roberto Piumini, Storie all’orizzonte, 2013)

Quando decisi di iniziare questa nuova esperienza in carcere, il filo conduttore risultò essere una necessità personale da soddisfare. Ciò che mi ero prefissata era di trovare un metodo di contatto e una cornice strutturata di dialogo con i detenuti stranieri della Casa circondariale di Bologna. L’intenzione era quella di riprodurre un’esperienza in quell’ambito, simile a quella realizzata dal Prof. Pier Cesare Bori nel 1998 con “Una via”, il gruppo di suoi studenti universitari di Scienze Politiche con cui aveva avviato dei laboratori di lingua destinati agli stranieri maghrebini (Bori 2008, 9). Venni a contatto con il Professor Bori nel 2011 e insieme discutemmo circa la problematica della carcerazione in rapporto all’identità religiosa dei detenuti di fede musulmana, che allora era anche il tema che stavo approfondendo nella mia tesi di laurea triennale (Bombarda 2011).

Parlammo della sua esperienza decennale di progetti in carcere, prima al Penale dove si trovano i detenuti che hanno una condanna definitiva, poi al Giudiziario dove ci sono molti stranieri e la maggioranza sono arabi. Parlammo anche dell’iniziativa “Meditazione silenziosa”, la nuova forma d’insegnamento che egli aveva iniziato a proporre al Giudiziario dal 2002, dove particolare importanza era data alla dimensione del silenzio preso in considerazione come momento che unisce al di là delle diverse appartenenze religiose. La novità di questa pratica della meditazione, guidata seguendo le indicazioni buddhiste, consisteva nella possibilità di porsi come base interreligiosa per il fatto di poter stare in silenzio insieme ad altri: ognuno con diversi pensieri, diversi affanni, diverse motivazioni religiose, ma tutti riporli nell’unica cornice comune del silenzio, che permette di andare oltre e superarle «con una mente e un cuore unico» (Bori 2008, 12).

In questo modo, il mio interesse iniziale per quel mondo così particolare e spesso occultato ai nostri occhi, che è il microcosmo carcerario, si è arricchito pian piano di conoscenze e di persone che vi operano in vari modi. Fu così che nell’estate del 2011, mentre mi trovavo a riflettere insieme a qualche volontario AVOC , due esperti e qualche collaboratore del gruppo “Una via” nell’ufficio del Responsabile di Area pedagogica della Dozza, discutemmo su come dare forma ad altre possibili “Vie” di supporto e vicinanza ai detenuti ─ ormai lasciati “orfani” per l’assenza del Professor Bori, gravemente ammalato da mesi. Da lì, infatti, ha incominciato a prendere forma una prima idea di quello che sarebbe stato il laboratorio “Mediterraneo comune, popoli e culture in dialogo”, il progetto che ho condotto nel corso dell’anno 2013/2014 nella Casa circondariale bolognese.

Per questo motivo la tesi, che ho voluto audacemente intitolare “Muri parlanti”, intende illustrare quella che è stata un’altra “Via” possibile d’incontro e di condivisione di spazi, insieme ai detenuti stranieri della Dozza. Come si vedrà, leggendo nelle pagine di questo lavoro, quello che sarà presentato è un laboratorio di comunicazione sui diritti umani fondamentali, svolto attraverso la lettura in parallelo del testo costituzionale italiano insieme ad altri documenti e dichiarazioni dei diritti umani provenienti dalla cultura araba, riconosciuti a livello internazionale ed europeo. L’oggetto, gli obiettivi, i metodi e le osservazioni che hanno caratterizzato una simile esperienza saranno mano a mano dipanati nel corso dei capitoli, di cui ora seguirà un breve cenno esplicativo.

La tesi si divide in cinque capitoli. Nel primo vengono presentati brevemente tre aspetti distintivi del quadro carcerario. Innanzitutto l’ambito storico in cui ha avuto origine il sistema penitenziario nel periodo precedente l’epoca moderna e in quello successivo, con l’intenzione di mettere in luce l’evoluzione storica dell’edificio detentivo e delle sue funzioni. In seguito è stata illustrata brevemente, focalizzando l’attenzione sul sistema penale italiano, la storia della legislazione penitenziaria dall’Unità d’Italia ai regolamenti emessi nel secondo dopoguerra, fino ad arrivare (terzo e ultimo aspetto) ad illustrare lo sviluppo dell’istruzione come elemento del trattamento rieducativo e riabilitante dei detenuti, rispettivamente nelle disposizioni contenute nell’Ordinamento del 1975 e nel Regolamento penitenziario del 2000, che è il testo attualmente in vigore. Il secondo propone innanzitutto un inquadramento generale delle carceri italiane nel momento attuale, e presenta dati e numeri delle presenze che incidono sull’indice del sovraffollamento. In seguito il capitolo si concentra sulla realtà sociale dell’immigrazione nel contesto della città di Bologna, per presentare infine i punti nodali e problematici che interessano gli stranieri in carcere. Nel terzo capitolo si è deciso di concentrare l’attenzione sulla presentazione del piano organizzativo del laboratorio attraverso l’analisi dello scenario di riferimento, gli obiettivi primari e secondari emersi, i detenuti a cui era rivolto, le scelte strategiche e i mezzi di comunicazione e promozione dei contenuti, e infine i tempi di progettazione e le risorse. Il quarto è uno sguardo d’insieme sull’esperienza avuta nella Casa circondariale della Dozza con i detenuti stranieri. Per mezzo di un’osservazione descrittiva ottenuta dai dati appuntati giornalmente nel diario di viaggio, si è voluto rielaborare lo svolgimento dei dieci incontri di laboratorio prendendo in esame alcuni aspetti: i protagonisti e i gesti della ritualità in carcere, il mondo dello staff (gli insegnati e gli agenti) e, infine, una serie di considerazioni su quali sono stati i temi caldi e gli aspetti critici emersi rispetto agli argomenti presentati. Per concludere, nel quinto capitolo si è allargato il campo d’indagine per quanto riguarda le altre esperienze educative e risocializzanti rivolte ai detenuti della Casa circondariale bolognese, che hanno per oggetto sempre le tematiche costituzionali e un’attenzione particolare verso i detenuti stranieri della Dozza. Si è dunque parlato del progetto teatrale “Leila della tempesta”, anch’esso focalizzato sulle tematiche dell’immigrazione e sul rapporto società italiana e detenuti immigrati. Infine, si è parlato del corso sui diritti intitolato “Diritti, doveri, solidarietà. La Costituzione italiana in dialogo con il patrimonio culturale arabo-islamico”, or ora in fase di attuazione in carcere, dove ogni mercoledì da novembre amaggio di quest’anno si assiste al particolare esperimento di formazione di un’Assemblea costituente composta dagli stessi detenuti che prendono parte al progetto. Infine, attraverso l’Appendice con l’ospite posta a conclusione del quinto capitolo, si è voluta descrivere l’esperienza di visita dell’imam di Reggio Emilia, Hassan Wagih Saad Hassan, ai detenuti musulmani del carcere, avvenuta in una classe di scuola dell’Area pedagogica. Da ultima, nell’Appendice con le immagini, si è voluto dare un un’idea di quelli che sono stati i contenuti, proposti durante gli incontri di laboratorio, che hanno sollecitato in diverse occasioni, interessanti spunti di colloquio e discussione con i detenuti.

I. istituzioni totali e austere. un lungo percorso di umanizzazione

La mia esperienza in carcere inizia alla stazione Mulhouse Francia. Avevo preso un treno, direzione Parigi, volevo andare da un amico per vedere se riuscivo a stare da lui e se mi poteva aiutare. Prima fermata (stazione Colmar). Vedo quattro persone che vengono verso di me. Uno di loro mi dice, in francese: “Bonjour monsieur, vos papiers s’il vous plait?” Ho capito che quella sarebbe stata la mia ultima fermata! Subito dopo mi disse: “Vous avez un mandat d’arrêt européen émis par l’Italien par l’association et le trafic de stupéfiants”. Poi ha concluso: “Vous êtes en état d’arrestation”. (SEI IN ARRESTO)

Tesina interdisciplinare di Samad Bannaq per il conseguimento del diploma in carcere per l’Istituto di Istruzione Secondaria Superiore Keynes, A.S 2012/2013.

1. origini del sistema penitenziario

1.1 la detenzione e la pena in epoca pre-illuminista

Non è un’impresa semplice ricostruire la storia del carcere, per vari motivi. Innanzitutto, perché nel corso dei secoli il termine “carcere” ha accomunato una serie di esperienze assai diverse tra loro sia per le modalità di funzionamento, sia per le finalità che esse intendevano perseguire (Tessitore 2002, 22). In secondo luogo, perché il carcere durante la sua evoluzione storica ha subito l’influenza di istituzioni che originariamente non erano nate con la funzione primaria della privazione della libertà personale, in conseguenza a qualche sorta di reato bensì, come vedremo in seguito, con quella di contenimento e correzione, che sono state un fondamentale elemento ispiratore per il successivo mutamento del carcere stesso . Dunque sarebbe storicamente inesatto affermare che il carcere sia un istituto di pena da sempre esistito. Il motivo dell’inesattezza di una tale visione dipende dal fatto che, negli ultimi due secoli, grazie all’apporto delle teorie illuministe e riformatrici, si è assistito al definitivo tramonto delle pene corporali e al progressivo affermarsi sia della pena detentiva, come sanzione prevalente da applicare ai condannati, sia del carcere come luogo istituzionalizzato dell’espiazione delle pene.

Fino alla seconda metà del Settecento le prigioni non erano concepite nel senso odierno, come luoghi di detenzione e di privazione della libertà personale, ma erano considerate come mezzi per impedire che l’imputato, in attesa di una condanna, si sottraesse alla pena. Il carcere non era quindi una sede costruita appositamente per fini detentivi, ma era un edificio, solitamente attiguo al tribunale, con funzione di custodia provvisoria per le persone incriminate in attesa di giudizio o di esecuzione della pena. Il passaggio a un mutamento sostanziale del concetto di pena vi fu nel secolo XV, grazie allo sviluppo dell’ideologia penale pre-illuminista. Fu in questo periodo che a poco a poco nei paesi del Nord Europa, a cominciare dall’Inghilterra, nacquero le prime “House of correction” o “Workhouse”, istituzioni caratterizzate dall’organizzazione rigida del tempo in gesti sempre uguali e ripetitivi. L’internamento in queste strutture riuniva allo stesso tempo una funzione di rieducazione e una di prevenzione generale della società libera.

1.2 età dei lumi e nascita del problema penitenziario

Si è detto che fino alla metà del XVII secolo la detenzione non era da intendersi come pena retributiva, ma che essa rappresentava un mezzo per impedire che l’imputato, in attesa di giudizio, si sottraesse alla condanna. Solo verso la metà del XVIII secolo in poi il carcere fu inteso come luogo di espiazione della pena, per cui il ricorso alla privazione della libertà personale cominciò ad essere adottato come sanzione prevalente. Il motivo di un simile sviluppo è dovuto al fatto che in tale epoca stavano affermandosi due dei più importanti principi innovatori in materia penitenziaria ad opera di Cesare Beccaria e Giovanni Howard. Da un lato il principio di umanizzazione della pena in proporzione al crimine commesso, dall’altro il principio della pena ai fini della prevenzione e sicurezza sociale e non come mezzo per l’esercizio del potere punitivo. 

Fu grazie all’affermazione di tali principi che, durante l’Illuminismo si fecero strada diverse teorie che avevano in comune l’obiettivo di razionalizzare le condizioni delle carceri, cercando di abolirne gli aspetti più violenti che fino ad allora le caratterizzavano. Il fermento d’idee sorto intorno al sistema penitenziario portò alla consapevolezza che erano necessarie riforme volte alla trasformazione delle prigioni da luoghi di infamia e crudeltà a luoghi di rigenerazione del reo (Festa 1984, 7). Il risultato fu che la dottrina giuridica illuminista, respingendo il principio della pena come punizione e adottando quello della pena come rieducazione, introdusse mano a mano alcune innovazioni. In primo luogo allo Stato fu attribuito sia il diritto di recludere i colpevoli sia l’obbligo di rieducarli, in secondo luogo la crudeltà che per secoli aveva caratterizzato i luoghi della detenzione fu attenuata dando luogo a spazi architettonici diversi: non più grandi stanzoni buoi ma celle singole, o per pochi internati, che avevano lo scopo di mantenerli sotto osservazione.

Quest’ultimo aspetto fu uno tra i principali punti di svolta per l’affermazione delle moderne istituzioni penitenziarie che portò al consolidarsi di una nuova struttura giuridico-normativa in grado di stabilire il giusto equilibrio fra delitto e pena. Infatti, in questo clima storico vennero accolte con favore le teorie di alcuni riformatori inglesi, tra i quali Jeremy Bentham che assegnò al carcere un carattere intimidatorio e di totale controllo, con l’obiettivo di trasformarlo in un luogo produttivo e risocializzante per i detenuti. Fu così che Bentham ideò e promosse un nuovo tipo di prigione, che chiamò Panopticon, basato sul principio ispettivo che i pochi (i sorveglianti) possono controllare i molti (gli internati) nell’arco delle ventiquattro ore (Foucault 1976, 274). Nasceva così la struttura architettonica del carcere moderno fatto di “bracci” e “rotonde”, costruiti in modo tale che i carcerieri stando fermi in un punto, potessero avere piena visuale su in intero braccio di celle o su più bracci. Sul piano pratico tali cambiamenti furono introdotti dapprima in Inghilterra, nella prima metà dell’Ottocento, poi in tutta Europa con alcune modifiche: la separazione fra i sessi, l’isolamento notturno dei detenuti e il lavoro diurno in comune.

Col tempo però, i primi tentativi di tale riformulazione sia disciplinare che architettonica del sistema penitenziario si rivelarono drastici e, per alcuni versi, contenevano il rischio di indurre a stati di follia. I principali sistemi penitenziari adottati nel XIX secolo erano classificabili in tre tipologie: il sistema filadelfiano (adottato per la prima volta a Filadelfia) basato sul principio dell’isolamento continuo (diurno e notturno) e assoluto dei detenuti; il sistema aburiano (sperimentato per la prima volta nel carcere di Auburn, vicino a New York) che prevedeva l’isolamento notturno in cella e il lavoro diurno in comune; infine il sistema irlandese che era misto e progressivo: prevedeva inizialmente l’isolamento continuo, poi solo notturno con lavoro diurno in comune seguito da periodi intermedi in organizzazioni agricole o industriali, e alla fine la libertà condizionata (Neppi Modona 1973, 1909).

2. regolamenti penitenziari dell’Italia unita

2.1 le riforme carcerarie dopo l’Unità: il regolamento penitenziario del 1891

Con il raggiungimento dell’Unità d’Italia si avvertì la necessità di raccogliere e uniformare tutta la legislazione vigente in ogni settore del diritto, così come anche le leggi nell’ambito del sistema penitenziario. Nonostante si fosse oramai consolidato il concetto di internamento istituzionalizzato ─ il quale comporta tuttora la sottrazione della libertà personale alla persona ritenuta colpevole, per un periodo di tempo proporzionato alla gravità del delitto commesso ─, contestualmente alla nascita della pena detentiva era sorto però anche il problema di come gestire il tempo che il detenuto doveva trascorrere in istituto, ovvero il problema di come il detenuto doveva essere trattato. Nel 1889 venne emanato il codice penale Zanardelli (entrato in vigore il 1° gennaio 1890) che in sostituzione del precedente codice penale sardo del 1859, il quale era stato esteso a tutte le province italiane, ad esclusione della Toscana, permise di raggiungere l’effettiva unificazione legislativa del Regno d’Italia. Con l’approvazione di questo codice, nel 1889 fu sancita l’abolizione della pena di morte in tutte le province italiane, la pena capitale restò però ancora in vigore nel codice penale militare e in quelli coloniali.

Ma la vera svolta nella riforma del sistema penitenziario fu rappresentata dall’emanazione del Regolamento generale degli stabilimenti carcerari e dei riformatori governativi del 1891. Considerato il primo fondamentale documento delle istituzioni penitenziarie, questo nuovo regolamento era il frutto del pensiero della scuola positiva11 che aveva individuato nel trattamento di rieducazione differenziato e individualizzato dei detenuti il nuovo cardine della politica penitenziaria. Difatti due delle principali disposizioni contenute nel regolamento riguardavano l’aspetto del trattamento e dell’istruzione negli istituti penitenziari, prevedendo per la prima volta l’obbligo della scuola per i detenuti e perfino un rigido sistema di punizioni e ricompense attorno a cui far ruotare la vita carceraria (Neppi Modona 1973, 1921). In epoca giolittiana tale regolamento fu oggetto di alcune importanti modifiche tese a migliorare le condizioni disumane dei detenuti. Venne infatti abolito l’uso della catena al piede per i condannati ai lavori forzati, eliminate le crudeli punizioni della camicia di forza e della reclusione nella cella oscura. Mentre pochi e non degni di nota furono i mutamenti intervenuti in materia penitenziaria, dal periodo che intercorre tra le prime riforme del governo Giolitti e la conclusione della Prima guerra mondiale. Soltanto negli anni 1921 e 1922 furono approvate una serie di circolari innovatrici volte al principio della rieducazione negli istituti carcerari. Questi timidi tentativi di riforma riguardavano diversi aspetti del lavoro svolto in carcere dai detenuti, dei colloqui con le persone esterne al carcere e della corrispondenza scritta.

2.2 legislazione penitenziaria nel periodo fascista

Durante il periodo fascista i modesti interventi di riforma degli anni Venti subirono un brusco arresto, tanto da far ripiombare il carcere nella tradizionale visione retributivo-repressiva della pena. Dato che il Fascismo rappresentava la prima esperienza italiana di regime di massa, esso si sforzava di ottenere il più largo consenso dei cittadini sia attraverso il coinvolgimento nella politica, sia tramite l’affermazione di valori forti. Per questo motivo, in campo penitenziario, la sanzione penale era utilizzata non solo come mezzo di punizione del singolo delinquente, ma era percepita anche come mezzo per difendere e riaffermare i valori travolti dell’intera società.

Nel 1930 fu approvato il nuovo codice penale, “Codice Rocco”, e nel 1931 il nuovo codice di procedura penale, “Regolamento per gli istituti di prevenzione e pena”, che rimarrà in vigore fino al 1975. I punti significativi del regolamento Rocco erano inerenti l’aspetto disciplinare della vita penitenziaria dei detenuti, e prevedevano pesanti limitazioni delle attività consentite in carcere e una rigida separazione tra mondo carcerario e realtà esterna. Erano infatti escluse dal carcere le persone estranee, cioè non inserite nella gerarchia e non sottoposte alla gerarchia penitenziaria. Inoltre, al fine di annullare ulteriormente l’identità dei detenuti era previsto l’obbligo di chiamarli con il numero di matricola (al posto del cognome) (Neppi Modona 1973, 68). Anche nel regolamento del 1931 erano contenute disposizioni sulle norme di vita carceraria, in esse oltre a recepire l’attenzione positivista alla rieducazione dei condannati si manteneva, al contempo, il carattere afflittivo e intimidatorio della pena. Le indicazioni in merito all’istruzione erano infatti ispirate dalla stessa logica della scuola positiva che aveva influenzato il regolamento del 1891. Il regolamento del 1931 fu il primo a stabilire l’obbligo scolastico per i detenuti nelle scuole istituite negli stabilimenti carcerari. In esso l’istruzione, il lavoro e la religione (naturalmente la religione cristiana) erano considerati gli unici mezzi attraverso cui rieducare i condannati secondo due rispettive finalità: con la religione e l’istruzione, si voleva “indottrinare” il soggetto deviato al rispetto dei valori forti, mentre con l’obbligo del lavoro se ne sfruttava la manodopera.

Alla materia dell’istruzione in carcere erano dedicati cinque articoli del capitolo IX del regolamento. Tali articoli prevedevano l’attivazione di corsi d’istruzione elementare per detenuti adulti ed analfabeti, e per detenuti minorenni che non avevano conseguito la licenza elementare. L’obbligo scolastico era esteso agli adulti privi di licenza elementare e in età inferiore ai quarant’anni, i quali erano tenuti a frequentare giornalmente i corsi per almeno due ore. I detenuti più anziani, invece, anch’essi privi di licenza elementare, erano ammessi ai corsi di scuola nel caso in cui ne avessero fatto richiesta, oppure nel caso in cui il direttore dell’istituto li avesse ritenuti idonei. Siccome non erano previste delle figure idonee o qualificate allo svolgimento dell’attività didattica, le lezioni erano tenute in qualche caso da insegnanti, ma anche dal direttore stesso, dal cappellano, dal sanitario, dal dirigente tecnico e da altri funzionari del penitenziario. Come fanno notare, tra gli altri, Aldo Ricci e Giulio Salierno (1971, 215) un simile orientamento verso un’istruzione paternalistica, imposta in modo obbligatorio, inibiva ulteriormente la crescita individuale della persona reclusa imbrigliandola nelle regole ideologiche che gli venivano imposte.

2.3 il secondo dopoguerra

La condizione del carcere nei pochi anni successivi alla Seconda guerra mondiale, continuò a essere disciplinata dal regolamento penitenziario del 1931. Tuttavia, constatata l’assenza di un qualsiasi tentativo di riforma, anche a seguito della liberazione nazi-fascista, si generarono tensioni provocate sia dal peggioramento delle condizioni di vita in carcere, sia dalla delusione di chi si aspettava un cambiamento dopo la fine del regime. Per questo motivo, nel breve arco di tempo tra il 1946 e il 1948, si registrarono alcune tra le più clamorose sommosse della storia carceraria italiana. La popolazione detenuta era talmente aumentata, fino a raggiugere valori doppi rispetto alla norma e le condizioni talmente peggiorate, che le carceri giudiziarie di Regina Coeli a Roma, le carceri Nuove a Torino e San Vittore a Milano subirono rivolte gravi e sanguinose che impegnarono seriamente l’apparato repressivo (Neppi Modona 1973, 1977). Dopo questi fatti, contestualmente all’emanazione della Costituzione della Repubblica italiana, nel 1948 venne istituita la prima Commissione parlamentare d’inchiesta sullo stato delle carceri, con il compito di formulare norme legislative e regolamentari per gli istituiti di prevenzione e pena, che fossero in sintonia con le disposizioni costituzionali. La “Commissione Persico”, dal nome del senatore Giovanni Persico che la presiedette, venne insediata il 9 luglio 1948 e portò a termine i suoi lavori nell’aprile del 1950, presentando alla Camera dei deputati una lunga relazione, “Progetto di regolamento per gli istituti di prevenzione e pena”, in cui furono avanzate concrete soluzioni per la riforma carceraria.

La relazione, nonostante mantenesse centrali i tre pilastri tradizionali del trattamento penitenziario (istruzione, lavoro e religione), propose alcuni importanti cambiamenti: come l’abolizione dell’isolamento diurno, l’introduzione della musica tra i mezzi rieducativi, il potenziamento del lavoro agricolo, l’abolizione del taglio dei capelli ai detenuti, la possibilità di chiedere e acquistare libri, l’abolizione del sistema spersonalizzante di chiamare i detenuti col numero di matricola, e altre innovazioni umanizzanti. Per quanto riguarda l’istruzione la Commissione decise abbandonare l’idea dell’obbligo scolastico, arrivando a concepirla come un’opportunità che l’amministrazione doveva offrire ai detenuti in nome del diritto del singolo individuo all’istruzione e della lotta all’analfabetismo. I detenuti erano liberi di scegliere se sfruttare tale opportunità o meno, senza il timore che la loro decisione potesse essere oggetto di ulteriori considerazioni sotto l’aspetto della condotta disciplinare. In questo modo la possibilità di dare un’istruzione, doveva essere seguita dall’impegno da parte dell’amministrazione penitenziaria a predisporre le strutture necessarie a renderla effettiva. Furono così dettate disposizioni per la sistemazione degli ambienti per le attività didattiche, per il potenziamento delle biblioteche e il miglioramento delle attrezzature scolastiche.

Queste modeste riforme costituirono la prima vera svolta innovativa del secondo dopoguerra, ma già tre anni dopo, si rivelarono infruttuose a causa di una nuova una svolta di carattere conservatore con una circolare del guardasigilli De Pietro (24 febbraio 1954). Bisognerà aspettare infatti la metà degli anni Sessanta perché avvenga il superamento definitivo delle ristrettive disposizioni del regolamento Rocco. Nel 1960 dopo gli esiti deludenti del Progetto presentato dalla Commissione Persico, venne presentato dal guardasigilli Gonella un primo disegno di legge sull’ordinamento penitenziario, con l’obiettivo di adeguare il sistema carcerario italiano ai principi stabiliti dall’ONU, nel 1955, sul trattamento rieducativo basato sull’osservazione della personalità deidetenuti. Accolto con molte titubanze, il nuovo disegno di legge prevedeva l’introduzione di figure nuove quali: gli educatori e i Centri del servizio sociale in carcere, oltre che un primo modello del regime di “semilibertà” per i detenuti . Come tanti altri progetti di legge decaduti a fine legislatura, anche il progetto Gonella decadde nel 1963 pur continuando ad essere ripreso, rielaborato e aggiornato negli anni successivi. Questa situazione perdurante di immobilismo delle riforme condusse nel 1975 al varo di una nuova legge di riforma.

3. l’istruzione come elemento del trattamento

3.1 l’istruzione nell’Ordinamento penitenziario del 1975

Negli anni Settanta ebbe inizio in ambito legislativo una fase di piena rivalutazione del fine rieducativo della pena. La Corte costituzionale, infatti, in una sentenza del 1974 oltre a stabilire il concetto di umanità delle pene, evidenziava la necessità che il fine e la funzione delle stesse fosse il “riadattamento alla vita sociale” del condannato
del 1975, la quale venne formulata in conformità a quanto disposto dal testo costituzionale, fu raggiunta maggiore chiarezza sia in merito al principio rieducativo della pena sia in merito a quello della detenzione, percepita non più come stato definitivo ma come condizione transitoria da cui potesse emergere, per il detenuto, una maggiore sensibilità sociale e una crescita personale.

3.2 l’istruzione penitenziaria nel Regolamento del 2000

Negli anni successivi, la riforma penitenziaria del 1975 subì alcune correzioni in seguito all’entrata in vigore delle leggi n. 663 del 1986, nota come “Legge Gozzini”, e la n. 165 del 1998, la cosiddetta “Legge Simeone”. Entrambe queste leggi erano volte a favorire la possibilità, prevista per i condannati che avessero mantenuto una buona condotta, di usufruiredelle misure alternative al carcere. Tuttavia l’effetto di questi tentativi di riforma non fu positivo, tanto da provocare da parte dell’opinione pubblica la richiesta pressante di un controllo più ampio e di una maggiore sicurezza sociale. L’ossessione pubblica per la sicurezza fu tale da determinare nel 1999 un aumento delle misure cautelari in carcere e, di conseguenza, un incremento significativo della popolazione detenuta e un inasprimento dei maltrattamenti e delle violenze, in contrasto con gli auspici della legislatura di far diventare il carcere la soluzione ultima dell’intervento sanzionatorio penale (Antigone 2000, 7).

In questo clima di contraddizioni in cui il carcere, per la prima volta, si trovava al centro dell’interesse sociale, i lavori dell’Amministrazione penitenziaria portarono nel 2000 all’emanazione di un nuovo Regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario. Il nuovo testo regolamentare del 2000 era nato con l’obiettivo di delineare un nuovo assetto del trattamento, in linea con le disposizioni dell’ordinamento del 1975. Come si è già ricordato, lo scopo del trattamento non era solo di favorire la convivenza del detenuto con il resto della comunità reclusa, ma anche di prepararlo al contatto con la società esterna, annientando così il rischio comune agli istituti di reclusione, di separarlo dal mondo (Antigone 2000, 9). A tal proposito, l’8 giugno del 1999, fu firmato un protocollo d’intesa tra in Ministero della Giustiziae la Conferenza nazionale del volontariato penitenziario, allo scopo di promuovere lo sviluppo delle attività di volontariato a sostegno del reinserimento sociale e lavorativo delle persone detenute.

Da notare, inoltre, che nel regolamento erano contenute anche disposizioni tese ad aumentare tempi e spazi da dedicare alle opportunità culturali. Per questo motivo si giunse a un coordinamento tra il Ministero della Giustizia, il Ministero della pubblica istruzione e le Regioni allo scopo di facilitare l’attivazione di corsi di scuola dell’obbligo in tutte le carceri italiane. Nell’accordo era anche prevista l’attivazione di almeno un corso di scuola secondaria superiore in ogni regione e la possibilità di tutori esterni per permettere ai detenuti il compimento degli studi universitari in carcere (secondo quanto sancito dall’art. 44 del Regolamento del 2000 che è dedicato interamente a questa materia).

II. spazi d’eccezione

1. il carcere Rocco D’Amato di Bologna

Una cosa mi ha colpito moltissimo sia quando sono entrato sia quando sono uscito, praticamente quando entri e quando esci ti danno un sacco nero, quello della spazzatura, per metterci le tue cose. Non ho mai smesso di pensarci e, ancora oggi, delle volte mi chiedo se forse si tratti di un simbolo per farti capire che sei l’immondizia della società. 

Tesina interdisciplinare di Samad Bannaq.

1. un inquadramento generale sulle carceri italiane oggi

1.1 dati e numeri: il sovraffollamento diminuisce ma i problemi restano

Stando ai più recenti dati forniti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP), i detenuti presenti nei 205 istituiti di pena italiani, alla data del 31 dicembre 2014, ammontano a un totale di 53.623 individui, con un tasso di sovraffollamento carcerario pari circa al 108%. Un dato, quest’ultimo, che nonostante sembri elevato se paragonato con la situazione della popolazione carceraria nel 2010 ─ dove i detenuti erano circa 70.000 e il tasso di sovraffollamento superava il 150% ─, fa presagire una posizione di lieve miglioramento sui dati del sovraffollamento carcerario.

Differenziando i detenuti per posizione giuridica, emerge invece come solo 34.033 (63,4%) stiano scontando una condanna definitiva, mentre i restanti 19.590 (36,5%) siano sottoposti a misure di custodia cautelare in carcere. In altre parole, quasi quattro detenuti su dieci si trova in carcere in attesa di un giudizio definitivo. Per quanto riguarda l’applicazione delle misure alternative alla detenzione (affidamento in prova ai servizi sociali, semilibertà, detenzione domiciliare), sempre al 31 dicembre, il totale dei detenuti in semilibertà è di 31.362 (58,4%), contro i 53.623 detenuti presenti in carcere. Un dato che appare ben diverso da quello di paesi come Francia e Inghilterra, dove il 75% delle condanne viene invece scontata all’esterno degli istituti di pena.

Guardando, invece, in modo più specifico ai dati demografici della popolazione carceraria italiana, in rifermento al genere si può notare come sul totale dei detenuti presenti 2.304 siano donne (4,6% della popolazione carceraria), mentre per quanto riguarda la cittadinanza si registra la presenza di 17.462 stranieri (35,1%).

Molto interessanti, inoltre, ai fini riabilitativi del trattamento e dell’istruzione anche i numeri della composizione carceraria per titoli di studio. Dai dati forniti dal DAP il 33% risulta in possesso di un titolo di scuola media inferiore, il 2,4% è privo di titolo di studio, l’11,4% possiede un titolo di scuola elementare e l’1% risulta analfabeta. Solo il 6,7% dei detenuti possiede un diploma di scuola media superiore o professionale, mentre lo 0,9% ha una laurea. In conclusione l’analisi dei dati sopra riportati mostra una situazione generale del sistema penitenziario italiano che, sebbene in lento miglioramento rispetto a pochi anni fa, resta tuttavia in netto contrasto con il fine ultimo della pena e della detenzione che, come sancito dalle fonti del diritto, deve essere protesa alla rieducazione del detenuto. I nodi identificativi alla radice del problema vanno ricercati, innanzitutto, a partire dal sovraffollamento carcerario che anche se in diminuzione, come dimostrano le statistiche del 2014, resta comunque un aspetto presente e da non trascurare.

Si dà il caso, infatti, che una media di 128,8 detenuti per 100 posti regolamentari (con punte molto più alte in Liguria e in Emilia Romagna) comporta conseguentemente una limitazione di alcuni diritti fondamentali e un generale abbassamento della condizioni della qualità di vita dei detenuti. A confermare quest’ultimo aspetto, come dimostrano le numerose inchieste giornalistiche e le denunce delle associazioni in difesa dei diritti dei detenuti, spesso le singole celle di 9 metri cubi arrivano a ospitare anche fino a tre detenuti. Le celle sono ambienti umidi, bui, dove in alcuni casi è stata registrata anche l’assenza di acqua calda, luce e adeguati servizi igienici. Visto l’elevato numero di stranieri in carcere, in molti casi i detenuti in cella non parlano neppure la stessa lingua e hanno età, origini e stili di vita completamente diversi tra loro. Inoltre, nonostante la legge italiana disponga diversamente, una simile situazione di sovraffollamento fa sì che spesso i detenuti in attesa di giudizio che non hanno ancora ricevuto la sentenza, si trovino a dover condividere la cella con detenuti condannati in via definitiva. A concludere il quadro resta il fatto che il numero concesso di ore d’aria per starefuori dalle celle negli spazi comuni, non supera le quattro ore giornaliere: questo significa che le restanti venti ore i detenuti le trascorrono in cella, in situazioni di assoluta mancanza di privacy nelle condizioni sopra descritte.

Si deve, quindi, purtroppo constatare che una tale situazione comporta gravi e persistenti violazioni di alcuni principi internazionali posti a tutela dei diritti fondamentali dei detenuti. Tali principi sono, in primo luogo, il divieto di sottoporre chiunque a trattamenti inumani e degradanti e, in secondo luogo, il principio rieducativo che deve perseguire programmi specifici che mirino a contribuire alla formazione personale e professionale dei detenuti.

2. la realtà di Bologna

2.1 popolazione detenuta: l’alta percentuale di stranieri

La condizione della Casa circondariale della Dozza va inserita nel contesto generale, relativo all’intera Regione Emilia-Romagna, che da alcuni anni presenta l’indice più elevato di sovraffollamento carcerario. Infatti, con una capienza stimata ufficialmente a un massimo di 480 posti, nel 2010 il carcere bolognese presentava uno dei picchi mai raggiunti prima, con una cifra ormai stabilmente vicina ai 1200 detenuti. Stando, invece, agli ultimi dati del Comunicato della garante regionale dei detenuti, Desi Bruno, nel 2014 la situazione del sovraffollamento sembra registrare una notevole diminuzione, con un avvicinamento del numero complessivo alla soglia della capienza tollerabile (659 i detenuti stimati in totale). Pertanto le celle singole continuano talvolta ad accogliere tre detenuti, se va bene soltanto due; mentre in passato si era arrivati anche a quattro detenuti coi materassi per terra.

Un aspetto da non sottovalutare nelle presenze è l’alta percentuale di detenuti stranieri, in totale 345, di 52 nazionalità diverse, provenienti in ordine di frequenza da Marocco, Romania, Tunisia e Albania. La gravità dell’elevatezza di questo dato è strettamente collegata alle condizioni di marginalità ─ data dalla diversità linguistica, religiosa, etnica, oltre che dalla condizione di “irregolarità” per il fatto di essere senza permesso di soggiorno ─ in cui spesso si trovano a vivere gli stranieri immigrati già prima di entrare in carcere. Le situazioni di disparità generale e di esclusione sociale, hanno di fatto accresciuto il rischio della devianza e della criminalità per questi cittadini non comunitari che, di conseguenza, sono avvertiti come motivo di allarme sociale da parte dell’opinione pubblica. Nella maggior parte dei casi, si tratta di detenuti in attesa di giudizio, arrestati in transito nel nostro Pese per aver contravvenuto alla legge sulla droga e sull’immigrazione, o più frequentemente accusati di reati come il commercio illegale, il furto, la rapina e in infine di reati contro la persona.

2.2 gli stranieri a Bologna dalla città al carcere, un quadro complesso

Così come il fenomeno migratorio sta interessando da qualche decennio gran parte degli stati europei, grazie in particolar modo all’allargamento dei confini dell’Unione Europea, anche in Italia la componente migratoria registra un flusso persistente già dagli anni Settanta. Guardando nel particolare alla realtà bolognese, è interessante notare come la Rete civica Iperbole rilevi che l’immigrazione sia divenuta ormai una parte strutturale della nostra compagine demografica. Dagli ultimi dati disponibili, aggiornati a dicembre 2013, la popolazione con cittadinanza straniera residente nel comune di Bologna era pari a 56.302 unità. Negli ultimi dieci anni il loro numero è più che triplicato, raggiungendo un’incidenza del 14,7% sul totale della popolazione. In generale, gli stranieri che vivono sotto le due torri sono soprattutto europei (42%) e asiatici (36,1%). Infatti, nel numero delle quindici cittadinanze più diffuse, le dieci nazionalità più rappresentate risulterebbero così posizionate: al primo posto la Romania, con 8.030 residenti, seguita dal Bangladesh (5.315) e dalle Filippine (5.227). Al quarto e quinto posto rispettivamente la Moldova (4.454), seguita dal Marocco (4.045); mentre al sesto e al settimo posto l’Ucraina e il Pakistan. A seguire, chiudono il quadro la Cina, l’Albania e lo Sri Lanka. Da notare, inoltre, l’aspetto dell’età attiva dei cittadini migranti, con un età media di 33,2 anni rispetto agli oltre 47 anni della popolazione bolognese, questi giovani stranieri arrivano nella nostra città per ragioni soprattutto lavorative e familiari, specie legate alla ricostruzione del proprio nucleo (ricongiungimenti familiari che coinvolgono anche i minori). I dati a fine dicembre 2013 mostrano, infatti, che tra gli abitanti stranieri, i minori in età scolare fino a 14 anni rappresentano il 17,7%, mentre gli under 30 anni sono il 39,4%.

In sintesi, tale quadro etnico trova una sua conferma anche nel carcere bolognese, dove la maggioranza dei detenuti appartengono a due delle comunità etniche sopra descritte: i paesi del Maghreb (quindi Nord Africa) e dell’Est Europa. Pertanto, negli ultimi anni, è stato registrato un incredibile aumento sia di detenuti provenienti dal Marocco, Tunisia e Algeria, sia originari di Romania e Albania.

3. essere stranieri in carcere: punti nodali e problematici

3.1 questioni aperte: esclusione vs integrazione

Per molti cittadini stranieri vivere in un altro paese significa mettere in continua discussione la propria identità. Il concetto di “integrazione” per alcuni diventa sinonimo di “rinuncia” dell’identità culturale. Quest’ultimo è un aspetto che viene avvertito in maniera maggiore dagli stranieri che scontano la pena in carcere, e che potrebbe avere come conseguenza la messa in atto di meccanismi di resistenza alla cultura dominante. Come sottolinea infatti Alain Goussot, la situazione carceraria dei detenuti immigrati, sul piano psico- esistenziale, è messa a rischio da una serie complessa di motivi legati a difficoltà linguistiche e sociali che acuiscono il senso di disuguaglianza, atomizzazione e separazione di queste persone.Questo fa sì che l’immigrato o l’immigrata, durante la detenzione, viva una situazione di solitudine, di non contatto con la società esterna e di ripiegamento su se stesso.

Stando alle interviste condotte, nel corso della tesi di laurea triennale se si vuole osservare più da vicino quali siano le problematiche dei detenuti immigrati all’entrata in carcere, emerge innanzitutto il fatto che molti di loro non comprendono il motivo della condanna, dunque non capiscono né la natura del reato commesso né il fine della pena previsto (Bombarda 2011, 34). In secondo luogo la grande maggioranza dei detenuti ha le famiglie all’estero, non fanno quindi colloqui né hanno sempre la possibilità di telefonare a casa. In certi casi, addirittura, non è raro che l’unica rete di contatti esterni sia proprio quella della microcriminalità, nella quale una volta usciti potrebbero facilmente rientrare, se non sono seguiti e aiutati nel periodo dopo la detenzione. Non mancano poi i conflitti e le difficoltà di comunicazione tra detenuti italiani e immigrati, motivo per cui la direzione penitenziaria ha deciso di separarli organizzando lo spazio carcerario su basi etniche, al fine di controllare meglio la situazione. Una simile scelta, sebbene possa aver avuto effetti positivi nell’immediato, può tuttavia portare con sé il rischio di aumentare il senso di isolamento dei detenuti, che si trovano così “ghettizzati” in una situazione di per sé già di esclusione, e la mancanza di possibilità di confronto con culture differenti (se non negli spazi comuni, ricreativi e pedagogici, come la scuola).

Non da ultimo, come sottolineato dalla garante Desi Bruno, permane la cronica criticità legata alla carenza del lavoro, per cui la quasi totalità dei detenuti ha un impiego a rotazione per qualche mese all’anno, esclusivamente in mansioni domestiche alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria. Mentre a causa delle scarse opportunità di lavoro esterne (come il lavoro in officina, costruita all’interno dello stabilimento carcerario), si verificano comportamenti di sopraffazione o di aperta ostilità nei confronti degli stessi immigrati ─ quelli con regolare permesso di soggiorno al momento dell’arresto che dunque possono accedere alle opportunità lavorative ─ accusati di rendere il carcere sovraffollato, sottraendo le poche occupazioni disponibili.

Infine, l’aspetto religioso è considerato tuttora un vero ostacolo nel contesto della Dozza. Una delle questioni fondamentali è la mancanza di un luogo di culto per i fedeli di credo islamico, una differenza che non è da poco se si considera il dato in crescita delle presenze di musulmani praticanti o di quelli che, proprio durante il periodo della pena, riscoprono la fede in carcere. Contestualmente al problema di non avere ancora uno spazio adibito per il culto ─ un aspetto che necessariamente crea una situazione di disuguaglianza rispetto ai detenuti cristiani che, invece, hanno la cappella e la presenza dei propri ministri per il culto ─ esiste il senso di sofferenza e solitudine per il detenuto musulmano che non trova spazio per viversi come soggetto di Allah. Come afferma infatti Goussot, non bisogna dimenticare che per il mondo musulmano la religione è presente in tutti i momenti della vita quotidiana e che non c’è la stessa separazione fra sacro e profano che un cattolico italiano vive nelle relazioni sociali. Dunque, l’effetto del carcere è quello di riprodurre la tendenza totalizzante dell’islam ma negando gli spazi e i luoghi adibiti all’esistenza di quest’ultimo: una contraddizione che può alimentare il terreno fertile per lo sviluppo dell’integralismo, anch’esso sinonimo di ulteriore chiusura e separazione.

Quello che facciamo è una piccola cosa, ma il punto su cui continuo ad insistere con loro è che possono riprenderla e coltivarla da soli in cella. Qualunque sia la loro storia, tunisini, romeni, italiani, albanesi, quel che importa è che imparino a usare questo potente strumento di consapevolezza, di conoscenza di sé e soprattutto m’interessa affidarglielo per la vita e per il futuro.

Dialoghi con Pier Cesare Bori, intervista (10 febbraio 2011).

1. origini e descrizione del progetto

L’idea di aprire uno spazio di discussione e dialogo con i detenuti arabo-musulmani del carcere Dozza nacque in modo spontaneo e naturale nell’estate del 2011. All’epoca la situazione carceraria della Casa Circondariale bolognese versava in un particolare momento di crisi, con un turn over complessivo delle entrate molto elevato (il culmine era stato raggiunto nel 2009 con una stima di circa 4000 ingressi all’anno). La gravità della situazione del sovraffollamento, con le relative cause e conseguenze, era unanimemente dichiarata dall’intero staff carcerario. Così in sede di riunione insieme al responsabile educativo dell’area pedagogica, Massimo Ziccone, ai mediatori culturali, ad alcuni degli insegnanti e dei volontari operanti in carcere, si era abbozzato per sommi capi il progetto di un laboratorio sui diritti umani per i detenuti stranieri della Dozza.

A rendere interessante l’idea del laboratorio vi erano diversi ordini di motivazioni. Innanzitutto la percentuale degli stranieri nelle carceri italiane e in particolar modo alla Dozza di Bologna. In secondo luogo, l’identificazione delle potenzialità positive della detenzione come spazio della riabilitazione civica e del reinserimento sociale. Infine, l’opportunità della sottoscritta di continuare uno studio sulle possibilità formative del carcere bolognese: un lavoro iniziato e, in parte, portato a termine con la tesi di laurea triennale in Scienze della Comunicazione, dal titolo Carcerazione e identità religiosa: il caso dei detenuti musulmani.

2. analisi di scenario

2.1 il contesto di riferimento: la Dozza di Bologna

Come si è già spiegato in parte nel corso del secondo capitolo, la situazione della Casa Circondariale di Bologna, a fronte dei picchi massimi stimati nel 2009, registrava già nel 2012 una situazione generale di diminuzione del sovraffollamento, in significativo calo, che aveva portato a un avvicinamento del numero complessivo dei detenuti alla soglia della capienza massima tollerabile. La situazione di miglioramento era, inoltre, già stata documentata dall’associazione Antigone (in visita alla Dozza nel dicembre 2012) con un’intervista alla ex Direttrice del carcere, dott.ssa Toccafondi, che aveva affermato come il forte calo degli ingressi fosse legato “a un lavoro più ponderato dei Pm a livello locale e a un ridimensionamento del visita dell’allora ministro della Giustizia Paola Severino all’indomani del terremoto in Emilia Romagna del 2012. Nonostante nel carcere bolognese non fossero stati segnalati danni strutturali agli edifici (come è avvenuto invece a Ferrara), il ministro aveva in quell’occasione deciso di “far respirare” la Dozza, per mezzo dell’emanazione del decreto legge “svuota carceri”. Così,alla data del 19 dicembre 2013, un rapporto online dell’associazione Antigone documentava la presenza di 892 detenuti, di cui 500 stranieri (60,5% è la percentuale stabile degli stranieri alla Dozza dal 2012) e 65 donne, di cui 30 straniere. Da notare il dato dei detenuti tossicodipendenti e alcoldipendenti: 200, dei quali 57 con trattamenti anti-astinenziali specifici.

Se da un lato il problema della popolazione carceraria non sembra più essere tra le emergenze del carcere bolognese, dall’altro continuano a permanere problemi strutturali gravi, da ascriversi all’intero sistema penitenziario italiano, nell’assegnazione delle funzioni direttive. Il pensionamento a fine del 2012 della Direttrice Ione Toccafondi, ha infatti comportato una situazione critica, con l’immissione di una nuova Direttrice, dott.ssa Claudia Clementi, responsabile anche del carcere di Pesaro. Questa situazione si traduce in una presenza precaria del ruolo direttivo che si rivela inadeguato alle esigenze di un grande carcere
Infine, sono da annoverare tra i problemi di carattere strutturale anche la condizione delle celle (in pessimo stato, a motivo del ricambio elevatissimo), la problematicità nell’accesso ai colloqui e alle visite (per questioni di sicurezza legate all’adiacenza con l’infermeria) e il sottodimensionamento degli organici: molto pesanti si sono rivelati i tagli di spesa per le attività ricreative e formative.

Ciò nonostante, rispetto al biennio 2009-2010, la situazione dal biennio successivo ad oggi si caratterizza per una migliore percezione del clima generale. Da notare, a questo proposito, la sottoscrizione di un Protocollo per la realizzazione del Polo penitenziario universitario dedicato ai detenuti della Dozza . A seguito dell’applicazione di questa convenzione oltre quaranta detenuti hanno potuto iscriversi all’università o continuare i propri studi in situazione detentiva, giungendo in alcuni casi anche a concludere il proprio percorso universitario con il conseguimento del diploma di laurea.

2.2 un laboratorio sui diritti

A fronte del contesto carcerario emerso fin d’ora, l’ipotesi del progetto “Mediterraneo comune, popoli e culture in dialogo” è stata quella di utilizzare le ore di lezione scolastiche dei detenuti per aprire, insieme a loro, uno spazio di discussione e confronto sui diritti umani fondamentali ai fini della riabilitazione civica e del reinserimento sociale. L’occasione di creare un frame di dialogo a partire dal tema dei diritti fondamentali, era data da diverse motivazioni.

Innanzitutto, l’interesse di realizzare il laboratorio all’interno del carcere e durante il periodo stesso della detenzione. Se, infatti, si considerano i dati statistici del Ministero della Giustizia28 con riferimento ai reati più diffusi tra i detenuti stranieri (al 31 dicembre 2014), al primo posto troviamo quelli contro il patrimonio, seguiti dai reati previsti dalla legge sulle sostanze stupefacenti e da quelli contro la persona. Dunque, si tratta in tutti e tre i casi, di reati che infrangono i diritti umani alla sicurezza personale (che protegge l’inviolabilità dell’essere umano da crimini e abusi di ogni sorta), alla proprietà personale e al benessere (fisico e delle facoltà mentali), i quali sono riconosciuti e comuni a molta parte del diritto internazionale ed europeo.

In secondo luogo questo progetto prevedeva l’opportunità di un confronto tra le culture che abbracciano il mar Mediterraneo, attraverso la lettura in parallelo di testi e documenti del mondo arabo ed europeo su diverse tematiche (suddivise per macro-argomenti nel corso dei sei incontri previsti). Come si è detto, infatti, il dato dell’alta percentuale degli stranieri presenti in carcere (circa il 35%) – in particolar modo, quelli provenienti dal Nord Africa (circa il 5% sul totale dei detenuti stranieri) e dai paesi dell’Est Europa (4,2% sul totale dei detenuti stranieri) – bastava da solo per rendere necessario un percorso di formazione rivolto a queste minoranze. Per questo motivo il fine ultimo del progetto è stato quello di agevolare la ricerca di un senso personale dell’identità della persona detenuta in carcere, attraverso il confronto aperto con realtà culturali “altre” dalla propria, ma che fin dall’antichità condividono un contesto molto simbolico di origine e scambio (non soltanto culturale ma anche commerciale e migratorio) che è il mar Mediterraneo.

Infine, la terza motivazione rientrava nel merito dell’attenzione mediatica sollevata dalla lunga serie di proteste e agitazioni, indicate con il termine “Primavera araba”, cominciate già durante l’inverno 2010/2011 nelle regioni del Medio Oriente, del vicino Oriente e del Nord Africa. Queste sollevazioni popolari, che sono continuate per tutto il biennio successivo, sono state in parte conseguenza della crisi economica del 2008, e in parte sono state determinate dalla corruzione, dalla povertà e dalla violazione dei diritti umani fondamentali (come l’assenza delle libertà individuali) che hanno provocato malcontento popolare e desiderio di rinnovamento dei regimi politici, “ventennali” in quei paesi. Dunque, ponendosi nel solco della stessa aspirazione al rinnovamento in senso democratico che ha caratterizzato questi sistemi politici e ha dato inizio a tali rivoluzioni, l’obiettivo del laboratorio “Mediterraneo comune, popoli e culture in dialogo” è stato quello di far conoscere, tra gli altri, i valori della Costituzione italiana come modello di democrazia.

2.3 strumenti per la progettazione

Gli strumenti utilizzati per dare forma ai contenuti del laboratorio e realizzarlo si distinguono in due tipologie: i primi consistono nei materiali di documentazione che sono serviti per la scelta antologica degli articoli tratti dalla Costituzione italiana da leggere in parallelo con altre Dichiarazioni universali, sia arabe che europee, che hanno in comune l’interesse per i diritti umani. Volendo, infatti, sviluppare un laboratorio di letture e analisi di testi che abbiano in comune i valori sui diritti fondamentali dell’individuo, si è scelto di presentare una serie di approfondimenti sul tema del diritto al lavoro, all’uguaglianza sociale, alla libertà di credo e alla pace attraverso la lettura a confronto di brevi brani tratti da:

  • Costituzione della Repubblica Italiana: la carta fondamentale dello stato italiano, entrata in vigore il 1o gennaio 1948, a seguito del referendum istituzionale del 1946 che vide il pronunciamento dei cittadini italiani sulla nuova forma di “Repubblica” da dare allo stato italiano dopo il regime fascista.
  • Dichiarazione universale dei diritti umani: il più noto documento a tutela dei diritti umani individuali, firmato a Parigi il 10 dicembre 1948. La sua redazione, da parte delle forze Alleate, fu promossa dalle Nazioni Unite in seguito alle atrocità commesse durante la Seconda guerra mondiale, con l’obiettivo di stabilire universalmente i diritti che spettano all’essere umano. La sua elaborazione fu il frutto di un confronto con altre fonti centenarie del diritto (come ad esempio: il Bill of Right del 1689; la Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti del 1776; la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789) i cui principi sono confluiti in larga misura in questa carta.
  • Dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo: proclamata il 19 settembre 1981 a Parigi, è considerata la versione islamica della Dichiarazione universale dei diritti umani. La sua stesura è un tentativo di comprendere appieno le esigenze religiose dei paesi islamici. Il suo contenuto si compone di 23 articoli anticipati da una sezione, cosiddetta Preambolo, la quale svolge un ruolo fondamentale nell’indicare tre punti fondamentali: 1) che i diritti umani dell’uomo musulmano sono “diritti eterni” perché provengono dal Corano e dalla Sunna; 2) che per questa origine “divina” essi non possono essere soppressi o corretti da alcuna autorità; 3) a seguire l’elencazione dei 12 “diritti eterni” dell’individuo musulmano.
  • Dichiarazione del Cairo sui diritti umani nell’Islam: proclamata il 5 agosto 1990, questo documento è una sorta di rielaborazione della Dichiarazione del 1981. Essa si compone di un’enunciazione dei principi fondamentali e irrinunciabili alla quale seguono 25 articoli. La sua importanza consiste nel fatto di rappresentare lo sforzo della società islamica nello stabilire un insieme di diritti civili, politici, economici e culturali inviolabili in linea con la modernità.
  • Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea: è stata elaborata nel giugno 1999 da una convenzione composta dai rappresentanti di ogni stato membro dell’Unione Europea, nonché da membri del Parlamento europeo e dai Parlamenti nazionali. Fu proclamata ufficialmente a Nizza nel 2000. Il suo contenuto riunisce un’unica legislazione i diritti (che prima erano dispersi in vari strumenti legislativi dei paesi europei) personali, politici, civili, economici e sociali dei cittadini residenti in Europa. Si compone di un Preambolo, seguito da 54 articoli.
  • Carta per i musulmani d’Europa del FOIE (Federazione delle organizzazioni islamichedell’Europa): i lavori dell’elaborazione di questa Carta iniziano nel 2000, anno in cuila FOIE aveva deciso di redigere una Carta dei valori per i musulmani d’Europa persottolineare i principi fondamentali alla buona comprensione dell’islam e per esplicitarele basi e i presupposti tesi all’integrazione dei musulmani in un quadro di cittadinanza.Da allora la FOIE aveva incaricato una commissione per preparare la bozza di questaCarta, la quale è stata successivamente discussa e approfondita dalla dirigenza dei variorgani istituzionali della federazione. Nel 2002 la bozza del progetto fu presentata aBruxelles ai delegati delle organizzazioni musulmane europee durante una riunioneplenaria. Dopo fruttuose discussioni, la versione finale è stata approvata e firmata il 10Gennaio 2008 a Bruxelles da più di 400 istituzioni ed organizzazioni islamiched’Europa di 28 paesi europei. Nelle parole del Vice presidente del Parlamento Europeo, Mario Mauro questa Carta costituisce “un codice islamico di buona condotta” e un’ottima spinta per rafforzare il dialogo interculturale e interreligioso. L’obiettivo della Carta: è di precisare un certo numero di principi fondamentali su cui si basa la comprensione comune dell’islam nel contesto europeo e di consolidare le basi degli scambi positivi con la società. Infatti, i principali motivi che ne hanno resa necessaria la stesura sono:
  • 1)  il contributo dell’Islam nell’arricchimento della civiltà europea contemporanea, la secolare presenza islamica in particolare nell’Europa orientale ed il fatto che i musulmani che vivono nell’Europa Occidentale vi si siano stabiliti in modo permanente, passando da una presenza temporanea di immigrati stranieri ad una residenza permanente rappresentata dalle nuove generazioni dei figli degli immigrati;
  • 2) la rinnovata necessità di una cittadinanza fondata sulla giustizia, l’uguaglianza dei diritti ed il riconoscimento dei musulmani come comunità religiosa;
  • 3) la diffusione dell’islam nel mondo con il suo bagaglio di spiritualità, umanità e civiltà e la necessità di migliorare la cooperazione e l’avvicinamento con l’Occidente in generale e con l’Europa in particolare al fine di assicurare la giustizia e la pace nel mondo;
  • 4) in sintonia con il processo di unificazione e allargamento dell’Europa, la prospettiva di un maggiore avvicinamento tra i musulmani d’Europa;
  • 5) la necessità di consolidare i valori del dialogo e della pace per il benessere della società, ed il rafforzamento dei valori della moderazione e degli scambi interculturali lontano da ogni forma di estremismo o di esclusione.
  • Dichiarazioni di al-Azhar: firmate rispettivamente nel 2011 e 2012, si tratta di due documenti redatti dall’Università egiziana di al-Azhar con sede a Il Cairo, uno dei principali centri d’insegnamento religioso dell’islam sunnita, il cui rettore è l’imam Ahmed Al Tayieb. Lo scopo di questi due documenti, formulati durante e dopo lo scoppio della Rivoluzione egiziana” , è sia quello di fornire indicazioni sulla nuova società islamica nata in seguito alle sommosse popolari contro il governo, sia quello di dar voce a una forma moderata di islam democratico in Egitto.

La prima s’intitola Dichiarazione di Al-Azhar e di un élite di intellettuali sul futuro dell’Egitto ed è il frutto del lavoro di un gruppo di intellettuali egiziani di varia estrazione culturale e religiosa che si sono associati per riflettere sulle questioni sollevate dal momento storico che l’Egitto stava attraversando dopo la rivoluzione del 25 gennaio 2011. Contiene undici punti fondamentali per illuminare la natura del rapporto tra lo Stato egiziano e la religione e chiarire le basi di una corretta politica ispirata ai principi della shari’a.

La seconda s’intitola Dichiarazione di Al-Azhar e degli intellettuali sull’ordinamento delle libertà fondamentali e rappresenta la prosecuzione del lavoro di riflessione del gruppo di intellettuali egiziani che sono così giunti a stabilire un insieme di principi e norme che regolano le libertà fondamentali, a partire dalle esigenze contestuali del momento storico che stava attraversando il loro paese. Queste libertà fondamentali, approfondite dalla loro trattazione sono: la libertà di credo, la libertà di opinione e di espressione, la libertà di ricerca scientifica e la libertà di creatività artistico-letteraria, fondate tutte sulla solida base della salvaguardia delle nobili finalità (maqâsid) della Legge islamica (shari’a), della comprensione dello spirito della legislazione costituzionale moderna e delle esigenze del progresso conoscitivo dell’uomo.

Mentre i secondi sono i materiali tecnici di supporto che sono serviti allo sviluppo del laboratorio in classe:

computer portatile per la presentazione delle slides (con su scritto gli argomenti suddivisi in macro-tematiche);

videoproiettore per la presentazione, oltre che delle slides, di filmati e video musicali;

materiale cartaceo: articoli di attualità, brani scelti di letteratura e testi sacri, fra cui la Bibbia e il Corano.

2.4 punti di forza/debolezza, opportunità/minacce

A questo punto della tesi, dopo aver finora spiegato gli elementi iniziali del piano di comunicazione del progetto, di seguito si è scelto di inserire lo strumento di analisi che viene utilizzato anche per il marketing management, chiamato “analisi SWOT” (Kotler 2007, 59). Tale tecnica, attribuita ad Albert Humphrey, è uno strumento di pianificazione strategica usato per valutare i punti di forza (strengths), di debolezza (weaknesses), le opportunità (opportunities) e le minacce (threats) di un piano di lavoro in cui un’organizzazione o un singolo individuo debba svolgere una decisione per il raggiungimento di un obiettivo finale .

Come si può notare dai quattro concetti sottolineati, l’analisi prende in esame sia l’ambiente interno del laboratorio, svolto in aula insieme ai detenuti (analizzandone i punti di forza e debolezza), sia l’ambiente esterno fuori dalle ore di lezione, o fuori dal carcere (analizzandone, invece, minacce e opportunità).

AMBIENTE INTERNO

Punti di forza

Elevata partecipazione di detenuti stranieri arabofoni provenienti dai paesi nordafricani. Infatti, su una media di 15 partecipanti ad ogni incontro circa la metà condividevano la lingua e il paese d’origine (Marocco, Tunisia, Algeria, Nigeria, Senegal, Ghana), l’altra metà era costituita da corsisti di provenienza mista: alcuni originari dell’Europa orientale (Moldavia, Albania), altri dell’Africa sub-sahariana (Nigeria, Ghana) due asiatici (Pakistan), infine una discreta minoranza di italiani (quattro corsisti facevano parte del secondo corso nelle Scuole Superiori).

Possibilità di dibattito e discussione durante e dopo la presentazione dei contenuti, agevolata anche dalla condivisione di una lingua (molti detenuti conoscono sia l’italiano che l’arabo).

Sostegno nel ruolo di mediazione da parte delle insegnanti che hanno partecipato al laboratorio. Il progetto del laboratorio, infatti, è stato presentato con nove mesi di anticipo (a marzo del 2013) in sede di coordinamento alle insegnanti dell’Istituto scuole medie Besta di Bologna e Scuole superiori Keynes di Castel Maggiore al fine di valutarne la convalida come progetto formativo e, allo stesso tempo, riabilitativo dei detenuti. In seguito le insegnanti stesse ne hanno approvato sia le tematiche (civiche e del diritto) sia le modalità di presentazione per mezzo di strumenti informatici(computer e videoproiettore), assumendosi la responsabilità di inserire l’attività del laboratorio nel proprio orario di lezione alla Dozza (una volta la settimana da novembre a febbraio, circa due ore per ogni incontro).

Punti di debolezza

Durata del laboratorio troppo esigua rispetto alle tematiche affrontate in aula. Nella versione originaria, infatti, la scheda di progetto presentata al Responsabile dell’area pedagogica della Dozza, dott. Massimo Ziccone, intendeva distribuire le 20 ore di laboratorio previste verso tre gruppi di studenti detenuti. Destinando, così, ad ogni gruppo tre giornate di due ore ciascuna. Tuttavia in seguito, venendo a mancare un numero sufficiente di studenti iscritti alla Scuola Media , le insegnanti dei primi due gruppi hanno deciso di accorpare le proprie ore di insegnamento facendo diventare sei gli incontri per il gruppo Medie, mentre i restanti tre per il corso di Scuola Superiore. In questo modo per quest’ultimo gruppo non è stato possibile approfondire in maniera efficace gli argomenti presentati in classe, com’è avvenuto invece per il primo gruppo.

Spazio ristretto delle aule e disposizione dei banchi, a file frontali e parallele, favorevole all’attenzione verso la cattedra, ma non alla socializzazione fra i corsisti partecipanti. Dal momento che uno tra gli obiettivi del laboratorio era quello di aprire spazi di dialogo fra i detenuti stessi, per ovviare a questo problema si scelto di spostare i singoli banchi, disponendoli contro le pareti, e di mantenere solamente la disposizione delle sedie disposte a semicerchio. Tutto questo, nonostante abbia favorito l’obiettivo sperato, ha però comportato una spendita di tempo per la sistemazione dell’aula, da aggiungersi alla spendita di tempo necessaria per la disposizione dei vari supporti tecnici utilizzati durante il laboratorio. Come ad esempio il computer portatile; le prese (da chiedere agli agenti in Portineria, all’ingresso dell’Area pedagogica comune), il videoproiettore, che si sono resi indispensabili alla riuscita del progetto.

AMBIENTE ESTERNO: con questa voce ci si vuole riferire all’insieme di elementi “esterni” al tempo, allo spazio e allo svolgimento del laboratorio.

Opportunità

Nei mesi che hanno preceduto la sperimentazione del laboratorio “Mediterraneo comune, popoli e culture in dialogo” alla Casa Circondariale della Dozza, si è avuta l’opportunità di aprire un confronto con i docenti dell’Istituto scuole medie “Besta” di Bologna e dell’Istituto di istruzione secondaria superiore “J. M. Keynes” di Castel Maggiore. Infatti, per mezzo di diversi incontri che hanno accompagnato lo sviluppo del progetto, nei mesi da marzo a novembre del 2013, i docenti hanno contribuito (insieme alla sottoscritta, proponitrice del progetto) a fare il punto sui contenuti della Costituzione della Repubblica italiana, relativamente ai primi dodici articoli dove sono tracciati i Principi fondamentali, discutendo quali fra questi potevano essere più utili, interessanti, attuali rispetto alle problematiche vissute dai detenuti in carcere. Per questo motivo la scelta nel merito dei contenuti è unanimemente caduta sulle tematiche inerenti al diritto al lavoro, all’uguaglianza sociale, alla libertà di credo religioso e al diritto alla pace.

Il venire a contatto con realtà diverse fra loro che, affiancando le attività dell’istruzione, contribuiscono in positivo allo sviluppo di ulteriori possibilità riabilitative per i detenuti. Si vuol far riferimento, in particolare, alla Biblioteca centrale situata sempre al piano terra del reparto giudiziario maschile, dove è ospitata anche la sezione pedagogica. Da qualche anno, grazie alla collaborazione dei membri “Ausilio Cultura” è stato possibile realizzare una collaborazione con la Biblioteca “Sala Borsa” che ha messo a disposizione il suo patrimonio librario.

La possibilità di estendere il progetto di laboratorio anche all’esterno, in un ambito l’interesse dei partecipanti al corso è stata molto elevata, dal momento che il confronto in parallelo di queste Carte ha messo in luce aspetti di un sentire condiviso con “l’altro” rispetto ai valori fondamentali espressi nelle fonti del diritto europee.

Minacce

Non sono state rilevate delle minacce esterne al laboratorio, trattandosi di un’esperienza di volontariato unica nel suo genere, i supporti per realizzarla sia da parte dello staff sia da parte della Direzione penitenziaria sono stati molto presenti dall’inizio alla fine del percorso.

3. definizione degli obiettivi

3.1 obiettivi di breve periodo

Sono stati identificati i seguenti obiettivi come realizzabili nel breve periodo:
1. Favorire la condivisione uno spazio di dialogo e confronto fra i detenuti stranieri del carcere, creando una cornice di discussione basata sulla ricerca di diritti umani e di valori fondamentali che accomunano diversi popoli e diverse culture.
2. A fronte delle statistiche sulla presenza di stranieri in carcere sopra riportate, l’opportunità di praticare un progetto per promuovere la riabilitazione di questi detenuti, che sono più esposti di altri al rischio della marginalizzazione e dell’esclusione sociale35 (Bombarda 2011, 15)
3. Portare a termine l’ipotesi di un progetto sperimentale in carcere, già postulato nella tesi triennale in Scienze della Comunicazione. Nella tesi di triennio infatti, questo originario progetto che allora era stato chiamato semplicemente “Popoli e culture in dialogo”, si proponeva di rispondere all’esigenza di risolvere le problematiche riscontrate dallo staff di operatori e volontari operanti nel carcere, in riferimento al loro rapporto con i detenuti stranieri, complicato dalla “diffidenza” e dalla differenza culturale. Per questo motivo, già nel 2011 con il benestare del Responsabile dell’area pedagogica della Casa Circondariale della Dozza, era stato pensato un programma di incontri culturali con l’obiettivo di individuare strategie capaci di rispondere alla questione del “come interagire” con questi detenuti, senza che le intenzioni dello staff fossero avvertite dai detenuti stranieri di diversa confessione religiosa come un tentativo di proselitismo (Bombarda 2011, 24).

3.2 obiettivi di medio – lungo termine

I seguenti obiettivi sono stati pensati come realizzabili nel medio-lungo termine:
1. La possibilità di estendere la sperimentazione del progetto avviata nel carcere bolognese della Dozza ad altre realtà carcerarie, sia livello regionale sia nazionale e contemporaneamente approfondire l’aspetto multimediale. Infatti, per entrambi gli scopi si potrebbe pensare alla ricerca di partner di progetto e di finanziamenti.
2. Includere nel programma del laboratorio, fin qui sperimentato, una o due giornate di incontro aggiuntive per presentare alcuni dei temi etici comuni che Oriente e Occidente hanno ereditato dalle civiltà precedenti, sviluppandole in maniera originale. Ad esempio il sentimento di amore e amicizia, la fedeltà ai patti, la sopportazione nella prova, il senso della morte, i legami familiari e il controllo delle passioni.
3. Elaborazione di un incontro conclusivo del laboratorio che preveda la messa in scena della rappresentazione teatrale “Leila della tempesta” (di cui si tratterà in seguito), insieme all’elaborazione di una Carta dei diritti dei detenuti da sviluppare nel corso delle giornate di incontro.

4. i corsisti coinvolti

Destinatari del laboratorio “Mediterraneo comune, popoli e culture in dialogo” sono stati gli studenti stranieri (per la maggior parte arabofoni) già autorizzati a frequentare i corsi di Scuola Media e il corso della Scuola Superiore Keynes attivati in Area Pedagogica comune. La loro partecipazione al progetto è avvenuta tramite iscrizione volontaria da parte di ogni singolo studente detenuto, rivolgendo una richiesta scritta (domandina) al Responsabile dell’Area pedagogica. Il numero massimo del gruppo, per motivi di sicurezza e di ristrettezza delle aule, non ha superato i quindici corsisti iscritti (essendo la capienza massima di diciotto corsisti).

Inoltre, a causa del maggior numero di detenuti stranieri uomini (circa 500 su un totale di 892 detenuti) rispetto al numero delle donne straniere (30 su 65), si è scelto di realizzare il laboratorio nella sezione maschile del carcere, nell’Area pedagogica situata al piano terra del reparto giudiziario (dotata di nove locali, più la Biblioteca centrale). Ma questo non preclude la possibilità in futuro di proporre il laboratorio anche nella sezione femminile.

Per quanto riguarda le età dei corsisti partecipanti, si è constatato un livello piuttosto omogeneo delle classi di età: la maggioranza dei detenuti, infatti, aveva un’età compresa tra i 25 e i 35 anni. Ma si sono registrate anche delle eccezioni rappresentate, da un lato dai detenuti italiani, più anziani, in una fascia d’età compresa tra i 40 e 50 anni
tre casi di detenuti nordafricani poco più che maggiorenni (fra i 18 e 20 anni). Il fatto che i corsi di Scuola Media registrino una classe di età più bassa, rappresenta anche un dato indicativo della provenienza etnica dei detenuti, dal momento che stando ai dati del Ministero della Giustizia, fra gli studenti stranieri di provenienza magrebina, la maggioranza ha un titolo di studio corrispondente alla licenza di scuola elementare e scuola media inferiore.

5. scelte strategiche e strumenti di comunicazione/promozione

Per il raggiungimento degli obiettivi elencati precedentemente, si è innanzitutto deciso di “preparare il campo” separando il lavoro in due stadi: una prima fase documentazione storica delle fonti di lettura scelte da utilizzare nel laboratorio e lo studio, tramite riviste online e cartacee, sul contesto storico in cui si sono sviluppate ed evolute la lunga serie di sommosse popolari che hanno dato inizio alla Primavera araba. In seguito nella seconda fase, complice il vantaggio di aver già avuto un primo approccio con la realtà del carcere grazie alla tesi triennale in Scienze della Comunicazione, si è scelto di venire a contatto con le persone che hanno operato/operano tuttora in contesti di detenzione: ad esempio le insegnanti dell’Area pedagogica comune, il monaco arabista Ignazio De Francesco, volontario dell’Associazione volontari del carcere (AVOC), e infine Samad Abdesammad, ex detenuto nella Casa circondariale della Dozza, che ha frequentato i corsi di Scuola Superiore Keynes diplomandosi in carcere nel 2013. La relazione con queste persone è stata fondamentale ai fini di ottenere tutte le coordinate possibili in cui si sarebbe inserito il progetto del laboratorio. Si vuol far riferimento, in particolare, alla molteplicità di punti vista nell’ambito della Scuola in carcere: nell’ottica di chi ha il ruolo dell’insegnamento (i docenti); chi ha il ruolo di sostegno e mediazione (i volontari), e infine, di estrema importanza, il punto di vista dei destinatari nonché protagonisti attivi dei corsi di formazione e istruzione (gli studenti detenuti).

In seconda battuta, si è scelto di focalizzare l’attenzione sulle migliori strategie che sarebbero state utili allo svolgimento del laboratorio “sul campo”. Ai fini di rendere più comprensibili e interessanti gli argomenti trattati, si è infatti deciso di utilizzare il programma di presentazione Power Point, utile sia per la creazione di slides di testo arricchite di fotografie, animazioni, suoni sia per la presentazione attraverso computer portatile e videoproiettore.

5.1 lavorare sui diritti: le schede di laboratorio

Più precisamente si è scelto di presentare la struttura delle giornate d’incontro e i relativi contenuti con l’aiuto delle diapositive suddivise in questo modo:
Accoglienza. Utilizzo della slide iniziale statica del Power Point, con cui si offrono le informazioni circa il titolo del laboratorio, la durata, il nome e cognome (della sottoscritta ideatrice del progetto). Questa slide è stata utilizzata per una sola volta a inizio di ogni ciclo del corso (quindi due volte in tutto, una volta per il corso di Scuola Media e una volta per la Scuola Superiore). Si tratta di una slide molto utile ai fini della presentazione, per la capacità di creare un frame contestualizzato e allo stesso tempo distensivo.

Benvenuti. Si tratta della slide successiva intitolata “Percorsi sonori”, in cui è mostrata l’esecuzione del video musicale Che il Mediterraneo sia del cantautore Edoardo Bennato. Si è utilizzata questa slide per dare inizio a ciascuno dei nove incontri nelle classi, prima che fosse presentato ai corsisti il tema della giornata. I motivi per cui è stato utilizzato questo momento sonoro di accoglienza sono stati principalmente due: da un lato il fatto che è servito come intrattenimento mentre i partecipanti prendevano posto nell’aula, dall’altro è stato di utilità simbolica per introdurre i partecipanti in una cornice spazio temporale diversa da quella cui sono abituati a vivere quotidianamente durante la detenzione.

Introduzione. Consiste in una serie di cinque diapositive in cui vengono presentati in sequenza: gli obiettivi del laboratorio, le fonti del diritto a confronto da cui sono stati tratti i materiali di lettura da analizzare in classe e, infine, un elenco di quali siano i diritti umani fondamentali condivisi dalle culture arabe ed europee.

Diritto al lavoro. Questa sezione contiene nove diapositive il cui intento è di mostrare come questo diritto, strettamente connesso con la dignità umana, appaia con somiglianze e differenze negli articoli: di: Costituzione italiana (artt. 1, 4, 37), Dichiarazione universale dei diritti umani (art. 23), Dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo (artt. 17, 19), Dichiarazione del Cairo sui diritti umani nell’Islam (art. 13). In aggiunta ai contenuti di testo, sono state inserite alcune immagini e un filmato che affrontano l’aspetto della subordinazione umana al lavoro (in particolare di fabbrica) e del lavoro femminile in Occidente durante le due guerre mondiali. Questo è servito per mostrare differenze e somiglianze di altre epoche storiche rispetto all’attuale, carica di ambivalenze e caratterizzata da una strutturale mancanza di lavoro. Infine, sempre per approfondire l’aspetto dello sfruttamento, viene affrontato il lavoro nei campi di sterminio, di cui il noto motto “Arbeit macht frei” ha assunto oggi un forte significato simbolico e ne sintetizza in modo beffardo le menzogne.

Diritto all’uguaglianza sociale. Sezione divisa in due parti, la prima delle quali contiene i riferimenti agli articoli della Costituzione (art. 3), della Dichiarazione universale dei diritti umani (art. 1), della Dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo (art. 3) e della Carta per i musulmani d’Europa del FOIE (art. 5). La seconda parte mostra, invece, il dispiegarsi della storia di questo diritto attraverso le testimonianze biografiche di tre personaggi a confronto: Martin Luther King, Malcom X e Nelson Mandela.

Diritto alla libertà di credo. Si tratta di una sezione di diciotto diapositive contenenti: nella prima parte un iter storico che mette in mostra quattro episodi esemplificativi in cui il diritto alla libertà religiosa è stato violato e strumentalizzato dal passato fino al giorno d’oggi, con l’obiettivo di dimostrare che esistono buone ragioni per ritenere indispensabile ilriconoscimento formale e la tutela del diritto di libertà religiosa. Nella seconda parte segue la lettura parallela degli articoli della Costituzione (artt. 2, 8, 19), della Dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo (artt. 10, 12) e della Dichiarazione di Al-Azhar e degli intellettuali sull’ordinamento delle libertà fondamentali (punto 1). Nella terza parte segue un approfondimento sull’ordinamento dello stato laico aconfessionale come la miglior soluzione elaborata negli stati di diritto occidentali a garanzia della libertà religiosa e del pluralismo confessionale.

Diritto alla pace. Consiste in una serie di diciassette diapositive, il cui contenuto è organizzato in due parti: da un lato, la parte dei riferimenti agli articoli 11 della Costituzione italiana e 10 della Carta per i musulmani d’Europa del FOIE. Dall’altra, la narrazione delle testimonianze biografiche intitolata “Idee di ‘pace’ a confronto” in cui sono messe aconfronto le vite di tre grandi personaggi del Novecento: Mohandas Karamchard Gandhi, il Dalai Lama tibetano Tenzin Gyatso, e infine una figura femminile: la politica birmana Aung San Suu Kyi.

6. budjet, tempi e risorse

Come si è già detto in precedenza, uno dei gravi problemi legati al carcere bolognese della Dozza è stato in questi ultimi anni, a partire dal biennio 2009/2010, il sottodimensionamento degli organici e i tagli di spesa per le attività ricreative e formative. Per questo motivo, pur essendo stato realizzato durante le ore di Scuola con il coinvolgimento dei docenti, il budget di questo laboratorio è stato pari a zero. Infatti anch’esso era considerato nel novero delle attività ricreative e trattamentali che dipendono dal volontariato .
Per quanto riguarda le tempistiche, si può affermare che per la realizzazione dell’intero progetto del laboratorio nel complesso sono serviti 13 mesi, caratterizzati da un lavoro su più fasi complementari:

  • la prima fase è iniziata nel mese di marzo 2013 ed è durata fino a giugno. Essa è servitaper la lettura del materiale documentale e bibliografico con cui organizzare una prima bozza dei contenuti del progetto e successivamente per proporre le idee scaturite al corpo docenti dell’Area pedagogica del carcere in sede di un incontro tra insegnati, volontari e mediatori culturali organizzato nell’Istituto Scuole medie Besta di Bologna.
  • La seconda fase si è svolta nell’arco temporale di quattro mesi (da giugno a settembre), durante i quali è stato fatto un lavoro puntuale di scelta delle fonti da confrontare e discutere per la lettura in classe, con particolare riguardo al contesto sociale e politico nei paesi coinvolti nelle rivoluzioni portate della “Primavera araba”. In seguito, nel mese di settembre la bozza definitiva del progetto è stata presentata alla Direzione carceraria della Dozza, che l’ha approvata permettendo alla sottoscritta di avere accesso39 Va segnalato, infatti, che attualmente il fondo previsto per questo tipo di attività è stato azzerato, e che dunque oggi ogni tipo di attività in questo campo è possibile soltanto con l’aiuto e la disponibilità di volontari “puri”.
  • La terza e ultima fase ha visto lo svolgimento del laboratorio, che ha avuto inizio in data 2 dicembre 2013 e si è protratto fino al 18 febbraio 2014 (per un totale di dieci appuntamenti da due ore circa ciascuno), con un ultimo incontro con l’imam di Reggio Emilia, ospite nelle classi nel mese di maggio.

IV. narrare l’esperienza: a scuola con i detenuti stranieri

Quando ho capito che dovevo trascorrere quattro dei miei migliori anni dentro una cella, non riuscivo a dormire senza terapia per addormentarmi, prendevo così tanti sonniferi che ad un certo punto non mi facevano più nessun effetto. Ma grazie all’aiuto dei libri, dei volontari e dei professori sono riuscito ad avere il coraggio per continuare e per essere qui davanti a voi guardando sempre avanti. 

Tesina interdisciplinare di Samad Bannaq.

1. osservazione dei rituali

1.1 i gesti della ritualità in carcere

Nel corso del Novecento, uno degli autori più noti ad essersi occupato del problema delle istituzioni totali in generale, e degli ospedali psichiatrici in particolare, è stato senza dubbio il sociologo Erving Goffman. Infatti, ciò che Goffman compie nella sua opera Asylums, è una sorta di esercizio in cui egli applica le metodologie delle scienze sociali, come ad esempio l’osservazione diretta e l’interesse per l’interazione faccia-a-faccia, con lo scopo principale di mettere a fuoco il mondo dell’internato. Per questo motivo, nel corso di questo capitolo si farà più volte riferimento alla metodologia di ricerca sociologica goffmaniana, la quale si è rivelata particolarmente utile nel corso del laboratorio “Mediterraneo comune, popoli e culture in dialogo” ai fini dell’osservazione e dell’interazione diretta.

Innanzitutto, quando si parla di un’istituzione particolare come quella del carcere, la dimensione più significativa da tenere in considerazione è quella della ritualità. Si tratta di un aspetto estremamente complesso che non solo regola l’ordine dell’interazione, ma ha anche la funzione di “proteggere il self dell’attore sociale” nei suoi vari aspetti, come il rispetto di sé e la protezione della faccia, che in una parola compongono la cosiddetta sacralità dell’individuo (Goffman 2001, 15). Al sacro, dunque, appartengono tutta la serie di comportamenti e atti che costituiscono i rituali d’interazione a cui l’attore sociale partecipa cercando di affermare, difendere e far rispettare il suo self. In questo senso l’attualità e la novità che tuttora rivestono gli studi di Goffman consistono nel fatto che egli descrive il mondo delle istituzioni totali ponendo attenzione alla capacità delle persone internate di resistere alle mortificazioni, provocate dalle pratiche di spoliazione del sé, attraverso il ritagliarsi di spazi personali sicuri o l’escogitazione di comportamenti alternativi.

Nel corso dell’esperienza di laboratorio la dimensione della ritualità è stata dominante fin dall’inizio, da un lato per quanto riguarda i rapporti dei detenuti con lo staff (in particolare gli agenti che hanno il compito oltre che della sorveglianza dei detenuti, anche della sicurezza e della registrazione di chi è autorizzato all’ingresso), dall’altro per quanto riguarda i rapporti reciproci fra detenuti. Quest’ultimo aspetto lo si è potuto osservare in maniera rilevante durante le ore del laboratorio in Area pedagogica comune. Difatti a un primo impatto di curiosità e interesse sollevato dalla presentazione delle nuove attività inserite nel programma scolastico, è stato interessante notare come ad ogni incontro successivo si stabilizzassero gradualmente una serie di comportamenti consuetudinari, i quali venivano manifestati regolarmente sia all’entrata in classe sia all’uscita. Caratteristici dell’entrata e dell’uscita erano per esempio:

  • gesti e cenni di saluto: hanno molta importanza nel determinare il riconoscimento sociale, soprattutto in un contesto come il carcere. Di solito i detenuti salutano gli insegnati con una stretta di mano, dando del “lei” in segno di rispetto del ruolo (dimensione verticale), mentre nel rapportarsi l’uno verso l’altro i gesti di saluto denotano un senso di orizzontalità molto maggiore. È infatti tipico dei detenuti stranieri, specie di quelli che condividono una cultura linguistica e religiosa (come gli arabi) salutarsi con formule condivise, che sono indice in certi casi di solidarietà e fraternizzazione (alcuni di loro condividono la cella, e in generale quasi tutti i corsisti del laboratorio appartenevano allo stesso braccio);
  • scambio con gli insegnanti specie al momento del congedo, a fine della lezione, è normale che alcuni dei detenuti che non hanno avuto il coraggio o l’opportunità di dire quello che pensavano nel corso dell’incontro, trovino più facile esprimere le proprie opinioni ricercando un colloquio diretto con i docenti. Altri detenuti invece si avvicinavano per la consegna delle “domandine” attraverso cui comunicare ai docenti l’iscrizione alle due sessioni che si tengono durante l’anno per il sostegno degli esami;
  • incarichi in classe: nel corso dei nove incontri previsti dal laboratorio era stato autorizzato all’ingresso l’uso di computer e videoproiettore per le slide, da sistemare necessariamente prima di iniziare l’incontro. Durante questa fase preparatoria, ormai divenuta anch’essa un rito, alcuni detenuti si immedesimavano nella funzione di “informatico” e altri in quello di “intermediario” con la segreteria, dove stavano gli agenti, per la richiesta di eventuali prese elettriche.

1.2 gli attori della ritualità in carcere

Per quanto riguarda invece l’aspetto delle relazioni fra detenuti, è interessante notare come nel corso dei nostri incontri i corsisti si riconoscessero reciprocamente dei ruoli attoriali. A questo proposito, durante gli incontri in classe sono state osservate in particolare due tipologie di ruolo emergenti:

  • il “leader” è colui che spesso esercita un ruolo attivo di partecipazione incalzante agli argomenti proposti. Si tratta di un ruolo molto importante in una dinamica chiusa come quella della classe di un carcere perché è questa persona che, manifestando immediatamente una reazione prima degli altri, è in grado di provocare due effetti diversi. Da un lato, infatti, se gli viene lasciato troppo spazio di intervento, può avere un effetto negativo perché tende a sovrastare, riducendole al silenzio, le opinioni del resto della classe (in questo modo viene meno il dialogo), dall’altro se ben controllato nei modi e nei tempi dell’interazione, ha invece un effetto positivo di stimolo all’intervento degli altri;
  • il “mediatore” è colui che si fa interprete delle opinioni espresse o inespresse dagli altri. Si tratta di una persona di solito molto ben inserita nello spazio sociale della classe che, a differenza del leader, non ha interesse ad affermarsi per ottenere degli spazi d’intervento solo per sé, ma interviene per spiegare ciò che hanno detto altri (e che magari non si è potuto capire per via della lingua o della timidezza di chi è intervenuto precedentemente). Questa figura ha interesse ad assumere un ruolo fiduciario nei confronti degli insegnanti, siccome può fare da spalla per aiutare il dispiegarsi del dialogo in classe.

2. il mondo dello staff

Al lavoro dello staff in un’istituzione totale, Goffman (2001, 102) attribuisce una funzione ben specifica che è il fatto di aver a che fare con le persone. Tuttavia, come lo descrive il sociologo, questo genere di lavoro non è come una qualsiasi attività pubblica o di servizio che implica l’instaurarsi di rapporti con il personale. Si tratta invece di un lavoro “sugli” uomini che sono posti sotto la sorveglianza e il trattamento del personale carcerario, come se essi fossero “materiale di lavoro”. Questa spiegazione del tipo di lavoro, quasi impersonale e distaccato, Goffman la giustifica ricordando che d’altro canto l’obbligo dello staff a mantenere una forma di trattamento umana per gli internati presenta alcuni problemi capaci di esporre il personale stesso ad alcuni rischi. Uno di questi rischi è rappresentato dal cosiddetto ciclo di coinvolgimento: ovvero il fatto che l’instaurarsi di sentimenti che vadano oltre la considerazione umana, come il provare simpatia o affezione nei confronti dei detenuti, può rivelarsi minaccioso in due sensi. Se da un lato, infatti, l’esposizione a ciò che fanno e patiscono i detenuti può determinare una sorta di coinvolgimento da parte di uno dei membri del personale penitenziario, dall’altro lato un simile coinvolgimento può risultare minaccioso nei confronti della distanza mantenuta dal resto dei colleghi dello staff che, invece, mantengono una distanza formale (Goffman 2001, 109).

Sempre legata all’aspetto del trattamento umano nei riguardi dei detenuti, un’altra azione determinante dello staff consiste nella riduzione dello stigma dell’internato prima della sua dimissione (Goffman 2001, 99). Quest’ultimo aspetto caratterizza tanto i rapporti con i pazienti degli ospedali psichiatrici, quanto quelli con i detenuti in carcere in fase di scarcerazione. In questo secondo caso, l’ansia della dimissione è un fatto tuttora attuale e degno di nota. Infatti, questo comportamento di insicurezza cui i detenuti prossimi al congedo vanno incontro è ritenuto essere il risultato della disculturazione, cioè della perdita di cognizioni e abitudini circa il mondo esterno della società libera, e della stigmatizzazione di cui egli si sente responsabile.

Alla luce di queste considerazioni, nel corso dei prossimi paragrafi si cercherà di approfondire due ruoli esercitati dai componenti dello staff (insegnanti e agenti) nel tentativo di metterne in luce le somiglianze e le differenze osservate nel rapporto con i detenuti.

2.1 ruolo degli insegnanti

Nell’esperienza di laboratorio è stato possibile lavorare a stretto contatto con i docenti della Casa circondariale della Dozza, la cui collaborazione è stata determinante per il buon esito del progetto. Quest’ultimo è un aspetto che è bene ribadire quando si parla di attività di riabilitazione dei detenuti, in quanto il sostegno da parte di figure dello staff di riferimento che si occupano della formazione (oltre ai docenti, lo sono anche i mediatori culturali, gli assistenti sociali, l’imam o il cappellano, i volontari) è utile a mantenere, soprattutto in presenza di esperti esterni al carcere, il giusto atteggiamento di distanza pedagogica. Oltre alla trasmissione del sapere che compete alla figura del docente, si è potuto osservare come si caratterizzavano i ruoli esercitati in classe dagli insegnanti:

  • ruolo materno: considerando che la maggioranza degli insegnati sono donne e che, in questo caso, il laboratorio è stato svolto nella sezione maschile del penitenziario, non è stato difficile notare l’instaurarsi di questo ruolo. Si tratta probabilmente di un atteggiamento che viene più naturale di quanto non sembri esercitarlo nell’aula scolastica di un carcere, piuttosto che in istituzioni scolastiche esterne, e questo avviene per due ordini di motivi. In primo luogo perché è un ruolo che gli stessi detenuti, in qualche maniera, “attribuiscono” alle insegnanti. E sembrano farlo per diverse ragioni, una di queste per esempio è data dal fatto che la concentrazione maschile, sperimentata durante la detenzione, fa sì che il detenuto incontri le uniche figure femminili nel personale dello staff. In questo modo l’attribuzione del ruolo materno non solo è funzionale al self del detenuto, così da permettergli di colmare una carenza affettiva, ma è anche funzionale al riconoscimento e al rispetto della donna nella professione di insegnante. In secondo luogo è un atteggiamento che le stesse insegnati “assumono” su di sé, perché consapevoli del fatto che esercitarlo in una classe di detenuti uomini non solo facilita la via più rapida per ottenere rispetto, ma è anche favorevole a creare delle condizioni di buona condotta nella classe, pur mantenendo tuttavia (nei casi che si sono potuti osservare) la distanza pedagogica.
  • Ruolo di mediazione: gli insegnanti (sia uomini che donne) che lavorano nelle sezioni pedagogiche dei penitenziari sono, per così dire addestrati a fare da intermediari fra le necessità, le richieste dei detenuti, e la volontà, le regole della Direzione. Le richieste scritte che consegnano i detenuti, le cosiddette “domandine”, sono spesso consegnate nelle mani di insegnati e assistenti sociali che si occupano di smistarle o al Responsabile dell’area pedagogica ─ nel caso in cui riguardino le attività scolastiche (per esempio le iscrizioni ai corsi o agli esami) ─ oppure, se riguardano altri tipi di bisogni come ottenere degli abiti o altri beni di prima necessità, ad associazioni di volontariato. Naturalmente si tratta di un ruolo che i docenti esercitano in collaborazione con tutto il personale dello staff carcerario, ma che si avvale molto della loro conoscenza dei singoli detenuti. Per fare un esempio, i casi in cui è stato possibile assistere all’intervento di mediazione degli insegnanti sono stati quelli di anticipazione degli esami scolastici per alcuni detenuti in via di scarcerazione, in modo tale che questi detenuti ottenessero il diploma di scuola media prima di uscire dal carcere. Infine si è verificato il caso in cui i docenti hanno avviato pratiche di richiesta, da parte dei detenuti musulmani, di prendere contatto con le figure religiose del credo di riferimento perché venissero a incontrare i detenuti in carcere (in seguito a una richiesta del genere si è potuto svolgere l’incontro con l’imam).
  • Ruolo di negoziatori nei conflitti: non è raro che nel carcere si verifichino dei conflitti interpersonali. In certi casi il clima di tensione provocato dalla situazione della detenzione e dalla concentrazione con persone che hanno delle tradizioni culturali diverse creano facilmente le condizioni per il verificarsi di conflitti che nascono dai comportamenti non capiti. Un aspetto da non sottovalutare nei conflitti è, per esempio, il peso della comunicazione non verbale: gesti del corpo, mimica facciale, distanze tra interlocutori possono essere involontariamente causa di ostilità nei rapporti fra persone di lingua e cultura differenti. Dunque, quello che l’insegnante consapevole di queste difficoltà può fare, al fine di evitare che da questi comportamenti non capiti o fraintesi nascano delle animosità, è cercare di aiutare i detenuti a capire quali sono gli elementi delle reciproche culture su cui le persone non sono disposte a cedere. Volendo evidenziare questo aspetto anche nell’esperienza diretta del laboratorio con i detenuti, è stato interessante notare l’impegno dei docenti al fine di stabilire un buon grado di conoscenza e collaborazione fra i corsisti detenuti attraverso alcune strategie:
    • creando le condizioni per cui tutti i detenuti si sentissero in una condizione di eguaglianza sociale, quindi in grado, spontaneamente, di indicare il proprio paese d’origine e le tradizioni senza sentirsi minacciati nel caso in cui la cultura di appartenenza avesse rappresentato una cultura di minoranza rispetto ad altre;
    •  favorendo un ritmo il più possibile paritario dell’interazione, in modo tale che a tutti i detenuti fosse data la parola nel corso di ogni incontro;
    •  facendo in modo che anche nel discorso sull’aspetto religioso, le due confessioni statisticamente più presenti in carcere (cristianesimo e islam) emergessero in modo tale da non creare una spartizione in un’ottica “noi” occidentali e “voi” orientali; promuovendo, al contrario, un dialogo che tenesse in considerazione primariamente gli aspetti più soggettivi e personali dell’esperienza religiosa della fede, e secondariamente le differenze in seno ad ognuna. Attraverso la valorizzazione positiva della diversità, si è così potuto notare come l’ottica del racconto di sé, più che quella della difesa di un patrimonio culturale acquisito, sia emersa in maniera molto spontanea tra i detenuti e gli stessi insegnati in dialogo con loro.

2.2 ruolo degli agenti

Un’ulteriore aspetto del mondo dello staff è quello riguardante il ruolo del Corpo dipolizia penitenziaria, ovvero il personale degli agenti di custodia. Come si è potuto accennare nelle Premesse di questo lavoro, gli incontri in classe con i detenuti avvenivano in assenza degli agenti i quali, stando di sorveglianza nel corridoio dell’Area pedagogica antistante le aule scolastiche, si occupavano di mantenere la quiete e l’ordine nel passaggio dei corsisti dall’uno all’altro corso di lezione. Sebbene non si sia potuta osservare (se non in un qualche raro caso) una presenza più diretta degli agenti in classe, le funzioni che questo personale svolge sono della massima importanza. Garantisce, infatti, l’ordine pubblico e la tutela della sicurezza all’interno dell’istituto; svolge servizi di pubblico soccorso, nonché di traduzione dei ristretti, da istituto a istituto, presso le aule giudiziarie per lo svolgimento dei processi e presso i luoghi esterni di cura, oppure in caso di ricovero dei detenuti, compie il servizio di sorveglianza, compito che precedentemente era attribuito alla Polizia di Stato e ai carabinieri.

Resta, infine, da aggiungere un ultimo incarico relativo al team degli agenti che concerne la partecipazione alle attività di osservazione e trattamento. Non bisogna infatti dimenticare che sono gli agenti (più che ogni altra figura del personale penitenziario) a occuparsi di accompagnare i detenuti durante tutto il periodo della detenzione. Vengono a determinarsi così delle conseguenze sulla responsabilizzazione dei detenuti stessi e sulla loro capacità di vivere nel rispetto delle leggi. In questo modo, oltre alle funzioni di sorveglianza, di ordine, di conduzione e di sicurezza, gli agenti finiscono con l’assumere su di sé anche funzioni di accompagnamento educativo.

Relativamente a ciò che si è potuto osservare nel corso dell’esperienza, riguardo al rapporto tra mondo degli agenti e mondo dei detenuti, sono emerse alcune considerazioni:

  • fra agenti e detenuti si instaura una relazione di conoscenza reciproca: gli agenti chiamano i detenuti per cognome quando si rivolgono loro; entrano in classe per richiamarli quando ricevono le visite o hanno il colloquio con l’avvocato, per cui devono scortarli personalmente nelle aule dei colloqui. I detenuti, invece, chiamano gli agenti con il solo appellativo unanime di “agente”, questo perché denota un riconoscimento del ruolo e una consapevolezza del fatto che tutti gli agenti, indistintamente, ricoprono quella funzione di ordine. Il rapporto è chiaramente più distaccato che con gli insegnati e le altre figure dello staff, con i quali sembrerebbero instaurarsi interazioni e scambi meno formali.
  • Nel rapporto fra agenti e insegnati il grado di conoscenza supera le soglie formali: ci si chiama per nome, in più casi ci si scambiano informazioni e chiacchiere informali. Naturalmente anche per gli insegnanti, come per le altre figure che entrano dall’esterno in carcere presentando i documenti per l’ingresso, i rapporti con gli agenti sono regolati dalla logica della routine giornaliera. Ogni richiesta, visto, entrata, concessione di strumenti in classe è regolata da una rigida burocrazia che rende gli scambi più frequenti, ma anche molto più controllati e regolamentati.

3. le ore del laboratorio

Si è detto nel terzo capitolo che le giornate previste per il laboratorio sono state dieci, per un totale di circa venti ore di incontri. Si sono poi aggiunte in seguito due giornate extra: una di appuntamento in carcere insieme all’imam di Reggio Emilia, Hassan Wagih Saad Hassan , e infine una giornata di conferenza stampa in carcere a cui è seguita la lezione del prof. Giuseppe Cecere sulla rivoluzione egiziana e i moti di piazza Tahrir del 2011 (nell’ambito del progetto or ora in corso “Diritti, doveri, solidarietà. La Costituzione italiana in dialogo con il patrimonio culturale arabo-islamico”). Di seguito ci si occuperà di approfondire l’articolazione delle giornate d’incontro del laboratorio “Mediterraneo comune: popoli e culture in dialogo”, insieme ai temi caldi e agli aspetti discussi che si sono potuti osservare in classe.

3.1 le giornate, i temi caldi, le criticità emerse

La ripartizione delle dieci giornate è avvenuta prendendo in considerazione le classi partecipanti al laboratorio, seguendo questo schema: sei giornate d’incontro per i corsisti frequentanti le scuole medie e tre destinate ai corsisti di scuola superiore. Si è detto, infatti, che nella versione originaria della scheda di progetto s’intendevano distribuire le venti ore di laboratorio previste verso tre gruppi di studenti detenuti: due classi delle medie, a prevalenza di detenuti stranieri, e una classe mista di scuola superiore, con detenuti sia arabi che italiani. Tuttavia, in seguito, venendo a mancare un numero sufficiente di studenti iscritti alla scuola media, le insegnanti dei primi due gruppi hanno deciso di accorpare le proprie ore di insegnamento facendo diventare sei gli incontri per il gruppo medie, mentre tre i restanti incontri per il corso di scuola superiore.

Le ore di laboratorio sono state così organizzate sulla base dei principi costituzionali fondamentali contenuti nei primi dodici articoli della nostra Costituzione, messi in rapporto con le Dichiarazioni universali dei diritti umani emerse in Occidente, in Medio Oriente e in Nord Africa sulle sponde del mar Mediterraneo. È così emerso un quadro delle nostre giornate d’incontro che prendeva corso dalla lettura in parallelo e in modo trasversale sulle varie Carte dei diversi diritti: al lavoro, all’uguaglianza sociale, alla libertà di credo religioso e di libero pensiero per arrivare, infine, al diritto alla pace.

Prima di procedere con l’elencazione degli aspetti discorsivi emersi in classe, bisogna sottolineare che è stata fondamentale all’illustrazione di ogni argomento la presenza dei supporti tecnici, dichiarati all’accesso del gate della Casa circondariale: come le schede cartacee di laboratorio, il computer portatile, il videoproiettore per le slide. L’utilizzo di tali mezzi ha infatti consentito una compartecipazione attiva dell’intero gruppo classe e un alleggerimento, tramite immagini e filmati trasmessi, dei temi del diritto illustrati. Oltre a ciò, è stata prestata una particolare attenzione non soltanto alla scelta dei testi del diritto (gli articoli costituzionali) ma anche nelle immagini, molte delle quali si sono rivelate in particolar modo efficaci per offrire a tutti i presenti un frame contestuale del tema della giornata.

diritto al lavoro

L’analisi e il confronto dei testi sono stati introdotti dalla paradigmatica scena di Charlie Chaplin nel film Tempi moderni (1936). Trattandosi del più noto film di denuncia sociale del lavoro disumanizzante in fabbrica, questa immagine ha subito sollevato l’attenzione e l’immediato riconoscimento, da parte di tutti i presenti, del tema che si voleva trattare. Per quanto riguarda la Costituzione italiana, sono stati illustrati gli articoli 1, 4 e 37. Il primo articolo è stato indispensabile per ribadire la peculiarità della Repubblica italiana fondata sul valore del lavoro, poiché vede in esso uno strumento di liberazione ed emancipazione in grado di dare dignità all’uomo al di là delle condizioni sociali che gli sono proprie. La discussione che si è sollevata in aula riguardo a questo articolo è la constatazione che il mondo attuale è cambiato e che nell’esperienza di molti detenuti ─ nel contesto corrente di crisi economica, sociale e lavorativa ─ il lavoro è visto sempre di più come un “favore” da parte del datore di lavoro verso il suo dipendente. Come ha fatto notare un detenuto italiano delle superiori: «Sembra che si debba essere riconoscenti per il semplice fatto di averlo un lavoro» e che spesso i salari per una mansione lavorativa non sono sufficienti a soddisfare bisogni primari. Tra gli italiani si è manifestata chiaramente la consapevolezza che senza la possibilità di compensare, attraverso un lavoro regolare e un salario adeguato, quelle che sono le necessità e le condizioni di una vita dignitosa, questo principio primario della nostra Costituzione è difficile da attuare.

Mentre quello finora descritto è un concetto compreso difficilmente dall’aula, ben maggiore attenzione ha suscitato, probabilmente per l’aspetto di genere che comporta, il confronto e la lettura parallela dell’articolo 37 della Costituzione italiana (che assicura il valore della parità dei diritti tra uomo e donna), dell’articolo 23 della Dichiarazione universale dei diritti umani (che si concentra sul principio della “eguale”, “equa e soddisfacente” retribuzione tra i sessi), e dell’articolo 17 della Dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo (che invece ha una chiave di lettura molto più spirituale e protettiva nei confronti del singolo individuo, poiché gli riconosce anche il diritto allo svago e al riposo “a sufficienza”, oltre al salario). Come ha fatto notare un detenuto egiziano, sembrerebbe che «l’unione di questi tre articoli garantirebbe la Costituzione universale, perché qui c’è tutto».

Infine, di grande sorpresa da parte dei detenuti italiani (sorpresa che lascia trasparire chiaramente i pregiudizi nei confronti della cultura araba) è stata la lettura dell’articolo 13 della Dichiarazione del Cairo sui diritti umani nell’islam, la quale sembra dare pieno riconoscimento al lavoro maschile e femminile e al suo carattere non discriminatorio. Alla fine dell’incontro è stata distribuita una scheda cartacea contente la trascrizione dei vari articoli letti in classe in modo che tutti potessero avere materiale da portarsi in cella su cui riflettere in vista dell’incontro successivo (sull’esempio del lavoro di Pier Cesare Bori). In aggiunta a ciò è stata consegnata anche la traduzione italiana (con testo arabo a fronte) dell’Hadīth 26, un racconto sul profeta Maometto che narra di come tutto nell’islam sia da ricondurre alla sfera della spiritualità e della carità che comprende, tra le altre cose, l’equità nei comportamenti umani, il servizio, il dialogo tra due persone, la preghiera e il lavoro stesso

diritto all’uguaglianza sociale

 L’illustrazione di tale diritto è avvenuta innanzitutto attraverso la lettura dell’articolo 3 della Costituzione italiana che contiene i principi di uguaglianza formale (primo comma), secondo cui tutti i cittadini sono titolari dei medesimi diritti e doveri e devono essere in egual misura sottoposti alla legge; e dell’uguaglianza sostanziale (secondo comma) per cui è lo Stato che si assume l’impegno di rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, dotandoli universalmente di parità di condizioni e opportunità. Accanto alla lettura di questo articolo ciò che ha colpito molto l’attenzione dei corsisti è stata la rappresentazione del quadro di Pelizza da Volpedo, Il quarto stato (1898) per il senso di unità e unanimità che emerge alla vista di un agglomerato di persone (nel quadro è il simbolo del proletariato, la classe sociale emergente) che procedono tutte insieme «avanzando come per una manifestazione o uno sciopero», ha fatto notare un detenuto tunisino che ha aggiunto anche come in quasi tutti i paesi del mondo gli uomini, quando hanno qualcosa da recriminare, «fanno tutti alla stessa maniera: si uniscono e chiedono più riconoscimento dei propri diritti».

Si è poi proceduto presentando il celebre articolo 1 della Dichiarazione universale dei diritti umani, con a lato la rappresentazione pittorica di Eugène Delacroix, La libertà che guida il popolo (1890). Anche in questo caso è stato interessante notare come per i detenuti musulmani, in particolare, la vista della figura femminile con il seno nudo sia stata travisata e non compresa. Qualcuno infatti ha parlato di «una signorina che lavora sulla strada», mentre qualcun altro si è chiesto perché fosse «sproporzionata» rispetto agli altri personaggi. Solo con l’intervento di alcune chiavi interpretative per spiegare il vero significato dell’opera e che cosa realmente è rappresentato, l’identificazione di chi fossero i personaggi illustrati è stata facilmente raggiunta e compresa dai presenti.

Successivamente, nella seconda parte dell’incontro si è voluto mostrare le testimonianze di vita a confronto di alcuni dei personaggi del Novecento (Martin Luther King, Malcom X, Nelson Mandela) universalmente riconosciuti, pur con le dovute differenze, per aver fatto del diritto all’uguaglianza una nuova conquista. Ecco alcune delle impressioni dei detenuti che dimostrano cosa li abbia colpiti:

l’infanzia di Martin Luther King per il fatto di aver sofferto sulla sua pelle cosa significasse(a distanza di soli cinquant’anni) la discriminazione razziale;

il caso Rosa Parks, la donna che è divenuta figura-simbolo del movimento per i diritti civili,famosa per aver rifiutato nel 1955 di cedere il posto su un autobus ad un bianco, dando così origine al boicottaggio degli autobus a Montgomery. Un detenuto albanese, a questo riguardo, ha voluto raccontare la sua esperienza di arrivo in Italia negli anni Novanta e ha detto che per lui «è stato molto difficile inserirsi, perché anche appena arrivato era come non esistere per gli altri». Mentre a un altro detenuto, un ragazzo marocchino, la storia di Rosa Parks ha fatto ricordare una delle prime esperienze che ebbe su un autobus, quando già da qualche anno era emigrato in Italia: «In autobus quando salgo nessuno saluta mai, è come non esistere. Ma io mi accorgo che le signore, quando vedono che sono straniero, tengono stretta la borsa»;

il celebre discorso “I have a dream” di Martin Luther King (di cui è stato mostrato il videooriginale in cui egli teneva il discorso pubblico e, successivamente, il testo scritto in italiano e in inglese). L’emozione sollevata da questo filmato è stata tale che, dopo averlo visto, un detenuto ghanese ha voluto rileggere davanti a tutta la classe il discorso in inglese e, mentre lo leggeva, la commozione che esprimeva sembrava essere condivisa dall’intera classe;

infine, anche la figura di Nelson Mandela ha sollevato l’interesse unanime dei presenti (probabilmente perché ne avevano sentito parlare di più nell’ultimo periodo, dato che la morte di Mandela, il 5 dicembre del 2013, era avvenuta poche settimane prima che iniziasse il laboratorio). Molti detenuti hanno apprezzato il coraggio di Mandela, qualcuno ha anche voluto dire che «Madiba è stato uno come noi, perché ha condiviso il carcere» e quando ne è uscito è diventato il primo Presidente di colore eletto in Sudafrica.

libertà di credo religioso

Questo diritto è stato affrontato, diversamente dagli altri, attraverso l’introduzione di due domande guida alla discussione in aula: 1) Perché è così importante tutelare la libertà religiosa?; 2) Che cosa succede quando tale diritto non è riconosciuto? Successivamente, si è deciso di illustrare una serie di quattro esempi storici significativi che dimostrano quanto abbia nuociuto, dal passato fino ad oggi, la problematica del non riconoscimento di questo diritto. Si è quindi proceduto mostrando, in prima battuta, uno degli eventi più intransigenti di epurazione religiosa ─ nota con il termine limpieza de sangre (purezza del sangue) ─ praticata verso la fine del Quattrocento in Spagna in contrapposizione ai “nuovi cristiani”, ovvero ai discendenti degli ebrei e dei musulmani conversi, i quali erano sospettati di continuare a praticare il proprio credo religioso.In seconda battuta, si è parlato delle guerre religiose in seno al mondo cristiano, fra cattolici e protestanti, le quali hanno caratterizzato quasi tutta la seconda metà del Cinquecento. Si è fatto riferimento, in particolare, alla strage conosciuta come “Notte di San Bartolomeo” dell’agosto 1572, che diede luogo alla quarta guerra di religione in Francia (1572 – 1573). In terzo luogo si è parlato della “strage di Srebrenica” (il genocidio avvenuto in Bosnia Erzegovina nel 1995 a danno di migliaia di musulmani bosniaci uccisi dalle truppe serbo-bosniache guidate dal generale Mladic nella zona protetta di Srebrenica, mentre essa si trovava sotto il controllo delle Nazioni Unite). Infine, l’ultimo esempio di libertà religiosa non riconosciuta è stato il recente attentato avvenuto ad Alessandria d’Egitto, a danno dei cristiani egiziani copti durante la notte di capodanno del 2011. Quest’ultimo è stato un evento accaduto appena qualche settimana prima dell’inizio della “Primavera araba” in Egitto.

L’illustrazione di questi quattro esempi aveva lo scopo di non suscitare la sensibilità dei presenti, in maggioranza musulmani, e sembra aver influito in modo favorevole sul clima di comprensione generale della classe, al punto che da parte di un gruppetto di alcuni detenuti egiziani è stato espressamente riconosciuto che «i cristiani copti sono una comunità religiosa da sempre esistente in Egitto», e che dunque meritano rispetto. In seguito è scaturita una discussione in aula, per il fatto che un insegnate ha posto la questione inerente il fatto che nella legge islamica (shari’a) il credo religioso costituisca tuttora un problema, da momento che l’islam è considerata religione di stato e che lo stato è confessionale. Si è cercato di facilitare questa discussione mostrando nelle slide successive gli articoli della Costituzione italiana (artt. 2, 8, 19) che dichiarano la libertà religiosa tra i diritti inviolabili dell’individuo; che tuttavia è stabilito un principio di uguaglianza delle religioni tra di loro; che lo stato italiano è aconfessionale per meglio garantire la laicità nel nostro paese; e che, infine, qualunque forma di rito religioso deve essere conforme al buon costume, a garanzia del rispetto della persona e della decenza.

In seguito, sono stati letti in parallelo gli articoli 10 e 12 della Dichiarazione islamica dei diritti umani, dove in riferimento alla Sura 2:256 in cui si afferma che: «Non c’è costrizione nella religione», l’articolo 10 sembra voler indicare che questo versetto del Corano contiene un principio valido di laicità ed è quindi un invito a praticarla nei confronti delle minoranze. Tale invito viene, infatti, specificato nell’articolo 12, dove si dichiara che il rispetto dei sentimenti religiosi altrui è un “dovere” che incombe su ogni musulmano.

Per concludere l’analisi trasversale di questo diritto, si è fatto riferimento anche alla Dichiarazione di al-Azhar, il documento redatto nel 2012 da una comunità di studiosi e intellettuali dall’omonima università egiziana guidata dal rettore Al Tayieb. Da notare l’aspetto simbolico di questo documento che è nato con l’obiettivo dichiarato di dare indicazioni per una nuova società islamica nata dopo le Primavere arabe e, successivamente, di dare voce a una forma moderata di islam democratico in Egitto. Non è un caso, infatti, che il primo punto fondamentale espresso sia proprio la libertà di fede.

Tra le riflessioni sulla laicità emerse in classe, è interessante la questione della scansione temporale per mezzo del calendario, posta all’attenzione da parte di un detenuto tunisino il quale ha fatto notare: «L’Occidente e la Chiesa cattolica hanno calcolato il tempo in base alla nascita di Cristo. Nei paesi arabi, invece, la calendarizzazione è più laica perché è lunare». Un altro aspetto emerso in classe è stato naturalmente quello della libertà religiosa concessa in carcere. Alla domanda se in carcere si sentissero offesi o poco rispettati rispetto al loro credo religioso, un detenuto marocchino ha risposto dicendo che «ai cristiani è concesso un luogo di raduno e la visita del cappellano, cose che i musulmani non hanno». La richiesta però più singolare, e per certi versi straordinaria, espressa da parte di un giovane detenuto algerino, è stata la necessità di ricevere in carcere la vista di ministri del culto ben formati e in grado di non fanatizzare le coscienze, ma di assisterle durante il periodo della carcerazione in modo da favorirne la crescita spirituale e il reinserimento sociale.

diritto alla pace

Di tale diritto si è potuto parlare in maniera più ampia e discorsiva, procedendo inizialmente con l’analisi delle fonti e poi con alcune testimonianze biografiche della storia contemporanea. Della Costituzione italiana è stato presentato l’articolo 11, che contiene il principio di rinuncia alla guerra (primo comma) come forma di imperialismo, ovvero come strumento di conquista e offesa della libertà del popolo. In questo senso è stata posta particolare attenzione al verbo “ripudia” del testo costituzionale, specificando che nel particolare contesto storico del secondo dopoguerra, veniva così espresso il conseguente spirito di rinuncia affinché non si verificassero di nuovo gli orrori della Seconda guerra mondiale. Sempre nell’articolo 11 (secondo comma) è anche espresso il principio della limitazione della sovranità e della guerra come extrema ratio nella risoluzione dei conflitti. Si è scelto questo articolo, per così dire “utopistico” perché conteneva in sé già l’idea dell’Unione europea e quella della superiorità della pace tra i popoli rispetto alla sovranità nazionale (spunti che nelle intenzioni della proponente del progetto sarebbero potuti essere usati nella discussione). Il diritto alla pace è stato confrontato anche con la Carta per i musulmani d’Europa della Federazione delle organizzazioni islamiche d’Europa (FOIE), di cui la lettura dell’articolo 10 ha suscitato in classe un’interessante discussione sul termine “Jihad”, il cui risultato si è rivelato per tutti un chiarimento sul questo concetto: esso, infatti, non significa guerra offensiva o guerra sacra (come si dice volgarmente) bensì, letteralmente “esercitare il massimo sforzo”. Questo significa che la guerra così specificata, è da interpretarsi soltanto in due sensi: da un lato comelotta spirituale interiore al fine di attingere alla fede perfetta; dall’altro come guerra difensiva, in caso di aggressione esterna. Il parallelismo con l’articolo 11 della Costituzione italiana non è stato tuttavia riconosciuto facilmente dai detenuti, se non in seguito ad un intervento didattico.

Dopo aver risposto ad alcuni chiarimenti sul significato del simbolo della pace ─ ancora poco conosciuto nelle culture orientali, a differenza della bandiera della pace che, invece, è molto più universale ─ sono poi state illustrate in classe le idee di pace a confronto attraverso tre personaggi dell’era contemporanea: Mohandas Karamchard Gandhi, il Dalai Lama del Tibet Tenzin Gyatso e la politica birmana Aung San Suu Kyi. Nel corso di quest’ultimo incontro è stato osservato un interesse molto elevato per queste testimonianze biografiche, che i detenuti conoscono come simboli, ma di cui non conoscono pensiero e pratiche. A questo proposito, alcuni detenuti del gruppo della scuola media hanno notato le costanti della nonviolenza e i metodi per applicarla ideati non solo da Gandhi, ma anche da Martin Luther King e Tenzin Gyatso ai fini di manifestare un dissenso non armato alle pratiche di violazione dei diritti umani. Molta commozione, infine, ha suscitato il brano musicale, con il relativo video, dedicato nel 2003 ad Aung San Suu Kyi dalla band musicale U2, il cui ascolto o possesso dell’albummusicale è tuttora censurato e ritenuto illegale in Myanmar.

V. la costituzione va in carcere: il teatro e Dustur

Questo impulso parte dai padri costituenti che ci hanno dato la Costituzione più bella del mondo! Non si può dare educazione alla persona detenuta, senza far leva sul suo patrimonio religioso e culturale: l’islam può essere partecipe di un progetto educativo.

Ignazio De Francesco, mia intervista alla conferenza stampa del 10 dicembre 2014.

1. il progetto teatrale: Leila della tempesta

1.1 scheda di presentazione

“Leila della tempesta” è una conferenza-teatro, un’attività didattica svolta attraverso una forma comunicativa particolare, nella quale interagiscono tre personaggi: il Cronista, Leila, l’Altro, con l’ausilio di immagini e musica. Il progetto nasce da un’esperienza di dialogo con i detenuti arabi della Casa circondariale della Dozza, svolta nell’arco di circa quattro anni. Il fondale è quindi quello del carcere e nel carcere, in particolare, il mondo delle persone coinvolte nel traffico di stupefacenti. Malgrado ciò “Leila della tempesta” si propone di oltrepassare i limiti della problematica del reato, per mostrare in modo più ampio gli orizzonti dell’incontro, del dialogo tra civiltà, i problemi della cittadinanza in una società in forte evoluzione. Lo strumento teatrale consente di calare temi e problemi in esistenze concrete, vive e palpabili. Inquesto senso “Leila della tempesta” è pensata come attività didattica, fatta per informare, suscitare quesiti, fare discutere. Ha la durata di circa un’ora e si prolunga in mondo del tutto naturale nel dibattito successivo tra i partecipanti, opportunamente condotto attraverso un mediatore.

Il testo è stato redatto da Ignazio De Francesco, della Piccola Famiglia dell’Annunziata, volontario dell’Associazione volontari per il carcere (AVOC), ed è stato presentato in tre occasioni particolari: una prima volta a Monteveglio, nella serie di incontri curati dall’associazione culturale “Custos, quid noctis”, poi a dicembre del 2013 nell’Istituto scuole medie Besta di Bologna, nel corso di un dibattito sull’istruzione e i percorsi formativi e trattamentali avviati dagli insegnati nel carcere della Dozza, e infine l’ultima rappresentazione è stata fatta lo scorso 17 dicembre 2014 presso la biblioteca Casa della Conoscenza a Casalecchio. Gli attori che hanno inscenato il testo sono stati: Serena De Biase nel ruolo di Leila; Dimitri Campanella e Alessandro Berti erano Marco e l’Altro; Giancarlo Sissa era il Cronista, e Andrea Stagni ha curato la regia audio-video. L’Intera esperienza ora è stata tradotta nella forma di uno spettacolo teatrale rivista dal regista e attore Alessandro Berti, e nella forma di un libro dal titolo omonimo edito nel 2016 da edizioni Zikkaron.

1.2 trama

Di seguito si vuole presentare lo schema sequenziale della rappresentazione teatrale, così come è stata messa in scena negli ultimi tre spettacoli (l’ultimo lo scorso 17 dicembre 2014). Il testo che descrive le scene è stato scritto dal suo regista, Ignazio De Francesco, e si compone di una Introduzione e cinque scene. Non sarà presentato il copione intero dell’opera, siccome è ancora in fase di modifiche e perfezionamenti da parte del suo autore.

INTRODUZIONE. Il Cronista inizia leggendo le prime righe di Memorie di una casa morta, capolavoro di Dostoevskij nel quale il grande romanziere e pensatore russo rievoca la propria esperienza di carcere in Siberia. Il limite, la noia e l’immaginazione sono i tre elementi di queste prime righe del romanzo e riassumono in modo magistrale il quadro dell’esperienza carceraria. Nell’incrocio tra queste linee il detenuto di ogni epoca e regione ripensa se stesso, il proprio passato, il proprio futuro. Il carcere è così un luogo di elaborazione identitaria. Questo vale per ogni detenuto ma in modo particolare per chi è prigioniero in un paese che non è il suo. Il Cronista fornisce i dati: il 30% della popolazione carceraria italiana è composta da stranieri. Il carcere sembra rappresentare il punto avanzato dell’evoluzione demografica del nostro paese, che si avvia in pochi decenni a toccare quel 30% nella sua composizione sociale (oggi l’8% ma già il 12% in Emilia Romagna e il 15% a Reggio Emilia; a livello scolastico quasi 250 scuole con più del 50% di studenti stranieri). Il carcere è un laboratorio di umanità e disumanità. È uno dei luoghi caratterizzato dall’intreccio più stretto tra culture e religioni diverse. Il messaggio/provocazione per i partecipanti è di vedere il carcere non tanto come un corpo estraneo/isolato/lontano, ma come parte viva di un tutto in evoluzione. Questa Introduzione propone dunque, dal punto di vista didattico, il problema della trasformazione demografica del nostro Paese, e suscita la domanda: come e con quali strumenti governarla? Il format di questaIntroduzione è quello di un servizio giornalistico. Il Cronista parla al pubblico e alle sue spalle sfilano immagini di migranti, scene di vita interetnica nelle nostre città, grafici statistici.

PRIMA SCENA. Monologo di Leila in cui racconta al pubblico come è arrivata in Italia, la sua storia precedente, la vita da orfana in un piccolo villaggio della Tunisia. Il passaggio dalla campagna alla città. Com’è maturata la sua decisione di partire. Il suo contatto con i Mercanti di uomini. L’arrivo in Libia. Il viaggio. Il naufragio. I suoi pensieri, le sue preghiere e tutto il suo mondo interiore in quei frangenti. Il messaggio/provocazione verso il pubblico è questo: dietro ogni “boat-people” c’è un mondo, una storia unica e irripetibile. Il format è quello di un monologo teatrale. Alle spalle di Leila scorrono immagini di naufragi. In sottofondo la voce della grande cantante algerina Aisha Rouduane, una delle artiste più impegnate e significative del mondo musicale arabo odierno.

SECONDA SCENA. Leila in Sicilia, dopo il rilascio dal centro di accoglienza a Lampedusa, è ospite presso una famiglia italiana. Questo è per Leila il luogo dell’interculturalità vissuta attraverso la scoperta di un cenacolo familiare italiano con i suoi riti: i cibi, gli usi domestici, la preghiera, i primi passi nella lingua, i balli popolari, le canzoni, le fiabe per fare addormentare i bambini. Tutto viene trasmesso, da una parte e dall’altra. Non sono conferenze e lezioni frontali ma travaso di vita, da una parte e dall’altra. Leila conosce e si fa conoscere. In questo quadro irrompe la proposta di matrimonio ricevuta da un ragazzo italiano, volontario per l’aiuto ai profughi, che le pone una sola condizione: che lei lo accetti com’è, che non gli chieda di diventare musulmano. Il dialogo tra loro due si focalizza sui temi del matrimonio e del diritto di scelta. Poi i dubbi, il conflitto interiore di Leila, a cui segue la decisione di rivolgersi alla madre. Quella madre lontana, unica parente della famiglia rimasta, che per Leila assume il ruolo di depositaria della Legge Religiosa. Leila infine lascerà la Sicilia, sposerà un uomo del suo popolo e partirà per il Nord. Nel format sono previsti: interventi esplicativi del Cronista inframezzati da tratti di monologo di Leila, e infine il dialogo tra Leila e Marco. I temi sollevati riguardano il ruolo della famiglia, i matrimoni misti.

TERZA SCENA. È passato un anno dalla partenza di Leila dalla Sicilia e tre mesi dal suo ingresso in carcere. Leila si siede tutte le settimane di fronte a un uomo che la viene a trovare, che le parla in arabo e le ha fatto avere i suoi strumenti per la preghiera. Si è fidata di lui, si è confidata. Improvvisamente però si rende conto che non è un fratello, cioè un musulmano, ma un Altro, è un cristiano e per di più un monaco. Questa Terza Scena fa così emergere il problema della tensione tra “fratellanza” e “alterità”. Che rapporto si può avere con un Altro, quale posto egli può avere accanto a me? La scena è tutto un dialogo tra Leila e l’Altro, inframezzata da qualche intervento del Cronista, che si mette dalla parte dello spettatore e lo aiuta ad entrare nel cuore dei problemi: fede e ragione, religione e laicità, uguaglianza e cittadinanza, legge di Dio e legge degli uomini, Costituzione e Shari’a, solidarietà, ricerca di punti comuni per una convivenza. Alle spalle dei dialoganti scorrono le immagini della Costituente, delle Primavere arabe, e ancora sottofondi musicali da Aisha Rouduane.

QUARTA SCENA. Tra Leila e l’Altro è ormai in corso un rapporto da molti mesi. Lui si è convinto della sua innocenza. Secondo lui, Leila è in carcere a causa del suo uomo, come lo sono molte donne dietro le sbarre, coinvolta suo malgrado nel crimine del marito. Ma improvvisamente la verità si capovolge. È coinvolta in un nuovo processo, che mostra in modo inequivocabile il suo pieno coinvolgimento nel traffico di droga. Il dialogo tra loro due, a tratti molto teso e con alcuni interventi chiarificatori del Cronista, introduce gli spettatori/partecipanti in un altro ordine di problemi, fino a quel momento completamente rimasto in ombra: cosa vuol dire legalità e rispetto delle leggi, quale rapporto c’è tra peccato ereato, in quale misura la legge italiana può essere sentita come vincolante da uomini e donne che vengono da altri mondi? Forse che si può trasgredire perché si è lontani dagli occhi dei parenti? Forse che la legge di Dio consente di vendere e consumare droga? Come per la scena precedente, il dialogo cerca di mettere in luce punti di contatto tra le civiltà. Emerge poi il problema del movente personale a delinquere: molti affermano di essere stati costretti a farlo, di non avere avuto alternative al crimine. Ma è la regola generale? In che modo la coscienza di una ragazza religiosa e tradizionale, come Leila, ha potuto elaborare la propria rottura dalla legalità?

QUINTA SCENA. È l’ultimo incontro tra Leila e l’Altro, sul bordo di un grande prato di periferia. Leila è stata scarcerata la notte prima. Si apre qui tutta la problematica del ritorno alla libertà. Il Cronista snocciola i dati: oltre il 70% dei detenuti ricadono nel reato. In paesi dove ci sono reali programmi di reinserimento di chi ha scontato una pena, la recidiva crolla sotto il 20%. Le statistiche dicono che la riduzione di un solo punto percentuale della recidiva farebbe risparmiare, al solo sistema carcerario, oltre 50 milioni di euro all’anno, senza contare gli altri costi accollati alla società dalle attività criminali. Lo spettatore/partecipante è così messo a contatto con un nuovo ordine di problemi: il dramma del ritorno alla libertà, che può essere un ritorno alla tempesta. Gli unici che ti tendono la mano sembrano essere proprio quelli che ti hanno portato in carcere. Ma qui c’è ancora una sorpresa: proprio pensando a tutte queste cose l’Altro si era dato da fare, aveva preparato l’uscita di Leila in ogni dettaglio. Un tetto sicuro, un lavoretto al coperto, una famiglia benestante dove stare, come in Sicilia, in attesa che la sua posizione si regolarizzi. Ma improvvisamente Leila, e in un modo per lui inspiegabile, rifiuta il progetto, sceglie la sua libertà. Afferma di avere sbagliato, di avere pagato, ma afferma anche di rivolere la propria libertà in modo integrale, senza che nessuno decida e faccia programmi al posto suo. Svela che il significato del suo nome, Leila, è “notte”. Un nome datole dalla madre. La notte in cui la partorì il padre moriva, ucciso in una faida tra clan. Aveva deciso di chiamarla Karima, col nome della nonna, ma saputo della morte del marito si voltò verso di lei e le disse dolcemente: “Enti leilati”, cioè “Tu sei la mia notte”. Leila è nata in una notte di tempesta, da Fatima. Si è resa conto però che nella notte di tempesta che l’ha portata in Italia è nata una seconda volta. È una nuova vita, uguale e diversa dalla prima. È una seconda identità. In modo molto travagliato e neppure a lei totalmente chiaro, Leila pone il problema della “doppia identità” che chi viene in Italia da altri mondi deve riuscire a sviluppare: esserecompletamente sé stessi, con le proprie radici e la propria storia, ma essere anche qualcosa di nuovo, diverso da prima. Per una donna ciò significa anche: la piena responsabilità delle proprie scelte.
La base musicale si alza. La conferenza-teatro è finita. Inizia il dibattito.

2. Dustur e DDS: la Costituzione italiana in dialogo con il patrimonio culturale arabo

2.1 rileggere la Costituzione con gli occhi di altre culture

Presentato nel corso di una conferenza stampa alla Casa circondariale lo scorso 10 dicembre 2014, in occasione della Giornata mondiale dei diritti dell’uomo, il corso “Diritti, doveri, solidarietà. La Costituzione italiana in dialogo con il patrimonio culturale arabo- islamico” è un progetto rivolto ai detenuti arabi e musulmani della Dozza per rileggere la Costituzione italiana attraverso la loro cultura. Da novembre a maggio, ogni mercoledì gli ambienti del teatro e dell’Area pedagogica del carcere continueranno a trasformarsi in una sorta di Assemblea costituente, a cui prenderanno parte una trentina di detenuti, in prevalenza quelli iscritti ai corsi scolastici della Dozza, alle ventiquattro lezioni tenute da insegnanti, professori universitari, mediatori, imam ed esperti di cultura islamica. Tutti insieme per rileggere la nostra Costituzione e riflettere sui diritti e i doveri in essa elencati e condivisi.

Ponendosi nell’esempio e nel vuoto lasciato dalla precedente esperienza culturale con gli stranieri in carcere, rappresentata dal gruppo “Una via” del professor Pier Cesare Bori (2008, 7), anche questo progetto è nato tre anni fa ed è stato ideato e coordinato da Ignazio De Francesco, religioso islamologo e volontario dell’AVOC. Esso parte dall’idea che il confronto fra diverse culture possa modificare le convinzioni di partenza di ognuno e permettere al singolo di arricchirsi, e che ciò possa facilitare l’obiettivo della rieducazione. La metodologia sottesa al corso, infatti, è basata sulla convinzione che non ci sia vera riabilitazione per un detenuto che ha violato la legge, in particolare se è straniero, se non passando attraverso i valori più alti delle sue tradizioni. Ecco dunque perché alla base del progetto, specifico per i detenuti musulmani, c’è l’idea da un lato di mettere al centro un ragionamento sulla nostra Costituzione – «la più bella del mondo» dice frate Ignazio – da leggere sia in italiano che in arabo; dall’altro lato l’idea di far leva sul patrimonio linguistico, religioso e culturale dei detenuti partecipanti.

Tra i diversi temi affrontati: la Primavera araba, il ruolo della famiglia e della donna nella società, le costituzioni arabo-islamiche sono solo alcuni degli argomenti previsti, i quali si intrecciano con lo studio e la comprensione dei diritti e doveri scritti nella Costituzione italiana. Per quanto riguarda i docenti, chi si occupa di seguire il progetto nel corso di questi sette mesi, sono sia i docenti del Centro provinciale istruzione adulti (CPIA) di Bologna, i quali si occupano ormai da anni della scuola per adulti all’interno della Dozza, sia figure che non appartengono alla scuola del carcere. Nel complesso della “redazione esterna” al corso ci sono infatti arabisti come Paolo Branca e Giuseppe Cecere, esperti di storia del mondo islamico come Caterina Bori, intellettuali musulmani come Adnane Mokrani e Abu Abd Al-Rahman ed esperti di diritto islamico come Gianluca Parolin. Oltre alla disponibilità della direzione della Dozza, decisivi sono stati il ruolo della garante regionale dei detenuti Desi Bruno che ha parlato del corso come di “una operazione culturale avanzata che non è un semplice ‘buonismo’ ma un dovere civile di solidarietà”, e l’apporto della scuola con la responsabile Filomena Colio.

2.2 l’obiettivo finale: una Costituzione ideale

L’esperienza di questo corso intende però andare oltre il gradino, comunque ragguardevole, della condivisione e della riflessione sul testo costituzionale. Quella che è venuta a crearsi nel carcere della Dozza è la formazione di un nutrito gruppo di “costituenti”, circa una trentina, incaricati di stilare una personale rivisitazione di una Carta ideale dei principi fondamentali. Questo esperimento di coinvolgimento dei detenuti partecipanti è stato utilizzato dal coordinatore del gruppo al fine di favorire un clima di integrazione nel rispetto delle sensibilità di tutti, e per evitare ogni forma di radicalismo. Dal gruppo di questi trenta corsisti – ha spiegato Ignazio De Francesco – si vuole poi selezionare un nucleo più ristretto che, insieme a qualche docente e al mediatore culturale Yassine Lafram, inizi a elaborare un documento da presentare agli altri con l’obiettivo di discuterne insieme. Ignazio ha tenuto a chiarire poi che questo esperimento di democrazia rappresentativa in carcere è niente più che una simulazione, cioè una sorta di esercizio di scuola finalizzato però al tempo stesso a mantenere un carattere di serietà, ovvero un modo intelligente di riflettere come musulmani e membri della comunità civile sui principi supremi della convivenza tra credenti e non credenti, tra uomini di ogni etnia e cultura. In questo senso il carcere può così essere un laboratorio di idee e impulsi a servizio dell’intera società.

VI. conclusioni

Al termine dell’esperienza nella Casa circondariale Dozza di Bologna ciò che si spera di aver illustrato in questo lavoro che ne è il frutto, è l’elaborazione sistematica di alcune linee guida di quello che potrebbe diventare, con uno sguardo teso al futuro e una sperimentazione in altre carceri, un progetto di laboratorio sui diritti con i detenuti stranieri. L’attenzione per questi detenuti è stata dimostrata in particolar modo nel secondo capitolo della tesi, dove, dati alla mano, emerge come negli ultimi anni il quadro sociale dell’immigrazione nella città di Bologna si rispecchi e trovi corrispondenza all’interno del microcosmo carcerario. Infatti, il carcere, come fanno notare tra gli altri anche A. Ricci e G. Salierno è anche il «fulcro istituzionale dove le contraddizioni del contesto in cui viviamo sono massime e spesso esasperate» (1971, 14).

Tali contraddizioni le si possono trovare, leggendo tra le pagine di questa tesi, a cominciare dalla storia evolutiva stessa del penitenziario: esso, infatti, non è sempre stato il luogo destinato a contenere i condannati alla pena detentiva o i sottoposti alla custodia cautelare. Come si è visto infatti nel primo capitolo, durante il periodo precedente all’Unità d’Italia il penitenziario era il luogo in cui venivano nascoste, in maniera indifferenziata, non solo le persone in attesa di giudizio, ma anche i condannati e coloro che la società considerava, per diversi motivi, “scomodi” o “pericolosi”. E anche quando con l’avvento dello stato di diritto si aprì la strada ai concetti di “internamento istituzionalizzato” e “sanzione penale”, le contraddizioni non smisero di caratterizzare il mondo delle istituzioni penitenziarie per ciò che riguardava il tempo che il detenuto doveva trascorrere in istituto. Si è parlato, a questo proposito, di quanta strada e quanta fatica si sia fatta prima di giungere, attraverso la legislazione e i regolamenti ministeriali, a un ordinamento che considerasse l’istruzione come uno dei pilastri del trattamento penitenziario “individualizzato” per ogni soggetto, ai fini sociali della riabilitazione e della rieducazione.

A tal proposito il laboratorio sperimentale in carcere qui illustrato, s’inserisce nell’ambito del trattamento nelle scuole carcerarie con l’obiettivo sia di realizzare quanto espresso in forma ipotetica nel precedente studio immaginato in tesi di laurea triennale (Bombarda 2011, 24), sia di descrivere “dal vivo” quello che è stato l’intero piano di sviluppo di un progetto in carcere, dalla semplice ideazione all’effettiva realizzazione. In questo modo si è voluto arricchire le pagine di questa tesi per mezzo di una descrizione, il più possibile oggettiva, delle dinamiche che possono aver luogo in uno spazio educativo come l’Area pedagogica penitenziaria.

Proprio su questa linea si potrebbero definire alcuni punti chiave per far emergere la qualità e l’efficacia del lavoro d’interazione con il mondo degli internati, punti che si sono rivelati fondamentali per la riuscita del progetto:

  • inserimento: conoscere personalmente lo staff dei docenti, degli assistenti sociali e deivolontari che partecipano ai progetti educativi in carcere, nonché le figure che hanno favorito in particolare questo laboratorio (la direzione della Casa circondariale) è stato un punto di partenza molto importante da cui partire, per creare un buon clima di scambio e collaborazione prima ancora dell’effettiva realizzazione del laboratorio con i detenuti;
  • ascolto: l’interazione con i detenuti, anche se avveniva nelle aule scolastiche dell’Area pedagogica, non si basava semplicemente sulla logica educativa della spiegazione e dell’apprendimento. Se gli incontri si fossero ridotti alla sola indicazione dei contenuti proposti in base all’attività che si stava svolgendo, allora si sarebbe rischiato di avere un coinvolgimento più limitato. Si è dovuto invece insistere sulla sollecitazione di domande esull’ascolto delle varie risposte, calcolandole nei tempi e nell’alternanza dei turni dell’interazione (Goffman 2007);
  • partecipazione: non si può pretendere di avviare un laboratorio che preveda un confronto fra culture, senza partecipare in prima persona alle interazioni che avvenivano in classe. I corsisti, infatti, discutevano gli argomenti proposti intervenendo sia con delle domande, sia con dei racconti che riguardavano i propri vissuti, le loro tradizioni e le prime esperienze di contatto con una cultura diversa dalla propria. È stato quindi utile che le insegnanti che hanno assistito al progetto (nonché la sottoscritta, conduttrice del laboratorio) prendessero parte a questi dialoghi in modo orizzontale, pur continuando a mantenere e far rispettare il loro ruolo e la reputazione di chi interveniva;
  • conversazione: è noto che l’interazione, a differenza dell’informazione, sia una conversazione bidirezionale, nella quale è opportuno ascoltare le persone, condividere le proprie conoscenze, fare domande meditate e fornire risposte esaurienti. Per questo motivo durante il laboratorio si è sempre cercato di mantenere questa regola d’oro: una conversazione umana e personale, un linguaggio amichevole e non autoritario;
  • guida: a chi esercita un ruolo di staff nel mondo delle istituzioni penitenziarie, come anche in altre situazioni dove vi sia una gerarchia verticale delle mansioni, è attribuito un ruolo di leader nel rapporto con la comunità dei detenuti. Partendo da un buon modo di porsi, attraverso l’ascolto e la partecipazione alle conversazioni che si sono avute durante gli incontri, è stato quindi possibile guadagnare il rispetto necessario per procedere.

VII. appendice con l’ospite

l’imam in visita ai detenuti islamici

A compimento del laboratorio iniziato in carcere con i detenuti stranieri della Dozza, il giorno 16 aprile 2014, è stato invitato come ospite esterno il professor Hassan Wagih Saad Hassan, imam della moschea di Reggio Emilia, che ha proposto una riflessione dal titolo “Il musulmano membro attivo di una comunità multi-religiosa e multi-culturale, dentro il carcere e fuori”. L’imam è stato accolto nelle classi dell’Area Pedagogica comune, nella sezione maschile del reparto giudiziario. Presenti all’incontro erano venti detenuti di religione islamica. Tra i moderatori erano presenti il già citato Ignazio De Francesco e le insegnanti del corso di scuola media. Di seguito si è deciso di riportare, nel modo più fedelepossibile, il dialogo, in forma di domande e risposte, tra Ignazio e l’imam. Sono state tralasciate, per motivi linguistici, le domande in arabo dei detenuti presenti.

Ignazio: I dati statistici attuali mostrano che nel Nord Italia almeno il 40 % degli abitanti è straniero, tanto che nel 2060 le previsioni sono che l’Italia diventi un paese dalle tante culture e religioni, come il Regno Unito e la Germania. Quindi, da questo si capisce quanto la convivenza fra popoli diversi diventi un aspetto sempre più importante. Come può, dunque, il musulmano vivere pacificamente in mezzo a tanti altri popoli e convivere insieme a tanti altri musulmani, sia dentro che fuori dal carcere? È possibile che il musulmano abbia rapporti con persone non musulmane, indipendentemente dal genere e dalla nazionalità? Quali linee dettano questo comportamento?

Imam: «Questo discorso è come un edificio: prima abbiamo messo le basi della fede, poi con l’argomento di oggi continuiamo su questa linea. I legami sono importanti e ne esistono di vari tipi: si va dal legame di sangue al legame di vicinato, ai legami di nazionalità o sovra- nazionalità, fino ai legami religiosi e di lavoro. Tutte queste relazioni sono rafforzate dalla presenza di un luogo fisico, in questo caso il carcere è il luogo fisico che vi mette in relazione. Infine, un tipo di legame particolare è quello che deriva dal padre Adamo, si tratta di una relazione umana che è all’origine di tutta l’umanità, la quale è stata co-creata insieme a un’unica madre, Eva.

Una volta feci una conferenza in Colombia, negli Stai Uniti, durante la quale il professore insieme a cui ero stato invitato era un ebreo. Lui sosteneva che il fondamento della religione si trovasse in Oriente, a causa della tradizione che fa risalire le origini delle tre religioni ai patriarchi che sono nati lì. Questo mi ha fatto capire che l’Occidente segue l’Oriente, perché esso è la fonte dello Spirito. Quindi è per questo che la religione è più connaturale in Oriente. Per esempio, per noi il senso della religione è spontaneo, per questo se sentiamo una bestemmia non riusciamo a rimanere indifferenti. Voi qui, in Occidente, avete dei principi molto belli e giusti, come la libertà di pensiero. Ma il problema è che qui questa libertà nonha una misura. Al contrario, in Oriente la libertà di espressione è posta a tutela dell’aspetto religioso. Per noi, per fare un esempio tipico, la pubblicazione dei fumetti su Maometto è stato certo un evento che si colloca nella libera manifestazione del pensiero, ma per noi che abbiamo fede è stato anche uno shock. Per questo noi abbiamo in cima ai nostri diritti, prima della libertà di pensiero, la religione.

Dunque, il grande problema della differenza fra Oriente e Occidente sta proprio qui, nel fatto che in Occidente i valori sono posti prima della religione. La frase: “La mia libertà finisce dove inizia la vostra” è molto giusta, perché rivela un aspetto relativo della libertà. Tuttavia il legame più forte che resta per un musulmano non dovrebbe essere in altri valori se non prima la religione e la fratellanza che ne deriva».

Ign. : Allora questo legame religioso privilegiato non potrebbe trasformarsi in un limite nel rapporto verso i non musulmani?

Im. : «C’è un versetto del Corano che dice: “Voi avete la vostra religione, e io ho la mia religione” (Sura 9, 6). Questo significa che il musulmano che non riesce a superare questa rigidità verso l’esterno, rischia di rinunciare alla vera applicazione della religione in nome della pretesa che solo la sua sia quella giusta. Quindi c’è un diritto a esprimere la propria libertà religiosa nei limiti consentiti dalla legge: se per esempio io fossi cattolico, sarebbe mio diritto pensare che la mia religione sia quella vera e consigliarla anche ad altri. Io da undici anni vivo in Italia e ho dovuto fare differenza fra quelli che sono i principi di questo paese e gli usi e costumi del mio paese d’origine. È molto importante fare discernimento fra quella che si sente come propria religione, e gli usi e costumi locali in cui ci si trova, che sono relativi solo localmente. Io sono professore e sono amico da tanti anni con Ignazio, ma ci sono aspetti che entrambi dobbiamo rispettare per mantenere una relazione rispettosa nonostante la differenza religiosa».

Ign. :E cosa dire del rapporto con gli altri che non fanno parte della stessa religione? Come si regola il rapporto fra i musulmani e non musulmani sia dentro che fuori dal carcere?

Im. : «A questo proposito vorrei parlare di una lega che abbiamo fatto a Reggio Emilia, si chiama Casa di Abramo ed è una comunità fondata per aiutarci a sviluppare i rapporti fra noi e la cittadinanza, e nell’insieme anche tutti gli aspetti che riguardano la città di Reggio. C’è un hadith (un racconto) del profeta Muhammad che, per motivi religiosi, decide di non condividere un posto vicino a un non musulmano. Ma in quel momento Allah stesso interviene per riprendere il suo comportamento. Questo racconto significa per noi che quando è questione di giustizia, o di aiuto verso il prossimo, non c’è più religione. Al contrario, un esempio da imitare è quello del profeta Giuseppe quando si trovò in Egitto, dove tutti credevano in divinità diverse dal suo Dio. Tuttavia Giuseppe si comportò sempre in modo corretto, al punto che aiutò perfino il faraone nell’interpretazione dei sogni al fine di scongiurare il pericolo della carestia. Difatti, il suo atteggiamento gli egiziani glielo riconobbero come giustizia. Ho dunque raccontato di Giuseppe per dire che anche per noi deve essere così, e che i rapporti verso i fedeli musulmani sono importanti quanto quelli con i non musulmani, dal momento che quello che si veicola sono cose buone e rispettabili anche gli uni verso gli altri.

Questo esempio del comportamento di Giuseppe in carcere è sempre stato molto limpido, anche per noi musulmani. Da qui comprendiamo che è molto importante essere convinti della propria religione, ma anche sapersi comportare in un modo conveniente con gli altri».

Ign. : Quale potrebbe essere un consiglio ai detenuti musulmani che vivono oggi la detenzione?

Im. : «Il mio consiglio è di pregare, leggere il Corano. Nessuno vi biasimi per la vostra religione o perché pregate. Soccorrete gli altri e collaborate senza guardare dall’alto in basso anche gli stessi musulmani che non sono praticanti. Non disprezzate perché credete di aver più fede, come dice il profeta Muhammad: “Dio non ha pietà per coloro che non hanno pietà per gli altri” (Hadith) e come dice Gesù “Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non t’accorgi della trave che è nel tuo?” (Luca 6, 41).

Infine un ultimo pensiero va al mese di Ramadan che è già iniziato. Negli ultimi dieci giorni di Ramadan ci si dedica solo alla preghiera, sono giorni che hanno un effetto magico sulla vita degli uomini e sono momenti molto zelanti nella vita di un musulmano. Ma ci sono anche altri momenti in cui la vita dell’uomo è più lontana e distante per vari motivi, uno di questi può essere per esempio la prigionia, la quale può essere attenuata attraverso una sopportazione positiva e paziente della pena in due sensi: aiutando a tenere duro sulla propria religione, ma ponendo attenzione a non isolarsi dagli altri, perché questo sarebbe un grande errore».

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